Il dialogo, l'ascolto, sono i nostri valori: valori fondanti al punto che un discorso sulle loro ragioni non può che essere puro esercizio retorico, noia. Posso pure farlo, questo esercizio, spiegare perché dal principio dell'autodeterminazione individuale discendono questi valori, quale concezione della verità sia implicita in essi, perché bisogna essere disposti a cambiare nel dialogo, ecc. ecc. Ma, appunto, mi annoio.
Eppure, in realtà, anche per ascolto e dialogo ci vuole una ragione perché si dia qualcosa piuttosto che il nulla, e il semplice fatto che ascoltare e dialogare siano imperativi morali non significa niente: non ci dice nulla sul come, non ci spiega perché a questi imperativi sia così difficile ottemperare, li lascia esposti alla cattiva coscienza e al pentimento come una virtù impraticabile ma a cui bisogna inchinarsi, un'occasione di ipocrisia (L'ipocrisia, diceva La Rochefoucauld, è l'inchino che il vizio fa alla virtù), un memento mori.
Perché dialogo e ascolto significano rumore, complicazione, cose nuove da raccogliere entro un senso, lavoro, confusione.
E ci sono quelli che predicano il dialogo, e si sforzano di praticarlo, ma non ne hanno bisogno. Hanno una forza propria, e io li ammiro per questo, e mi piacerebbe essere così, avere tutto in me: progetto, domande, strada. Mentre io davvero non so pensare da sola, non so parlare se non rispondendo: ed è il mio limite.
Che, avendo tutto in sé, si sforzino all'ascolto, è per me un'altro motivo di ammirazione; o di ammirata diffidenza.
Perché vedo bene la forzatura: hanno tutto in sé, e il rumore, la complicazione, le cose nuove da raccogliere in un senso non aggiungono niente se non confusione. Ma proprio per questa forza il loro percorso è solitario, l'Altro lo possono amare, aiutare, forse persino riconoscere nella sua alterità: ma non ne hanno bisogno. Hanno bisogno, a volte, di ricevere conferme, di spettatori, di chi gli dica: "continua così": ma questa è una debolezza, non è dialogo.
Io no,
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Monday, 23 May 2011
Tuesday, 16 November 2010
Azzurro
Ho sognato mia madre, "un giorno di settembre, il mese blu". Magra come un uccellino, nella sua vestaglia di satin azzurro, si presentava alla mia porta.
"Entra", le dicevo, e l'abbracciavo. E lei era venuta per dirmi che "aveva fatto le analisi" e sarebbe guarita. Io la guardavo negli occhi lucidi e febbrili, e sapevo che non era vero, e la prendevo sulle ginocchia come faccio con la mia bambina - quando vuol essere consolata, o semplicemente mi vuole parlare.
Ogni nuova perdita ha il volto di quelle che l'hanno preceduta.
"Entra", le dicevo, e l'abbracciavo. E lei era venuta per dirmi che "aveva fatto le analisi" e sarebbe guarita. Io la guardavo negli occhi lucidi e febbrili, e sapevo che non era vero, e la prendevo sulle ginocchia come faccio con la mia bambina - quando vuol essere consolata, o semplicemente mi vuole parlare.
Ogni nuova perdita ha il volto di quelle che l'hanno preceduta.
Friday, 22 October 2010
Quelli che cercano
"Come può una persona essere piu vera di ogni altra? Be', certi si nascondono altri cercano. Forse quelli che si nascondono - sfuggendo agli incontri, evitando le sorprese, proteggendo le loro proprietà, ignorando le loro fantasie, limitando le loro sensazioni, aspettando che passi il magico flu flu del flauto dell'esperienza - forse quella gente, gente che non parla agli operai, o se si tratta di operai non parla agli intellettuali, gente che ha paura di infangarsi le scarpe o di bagnarsi il naso, di mangiare ciò di cui ha una voglia matta, di bere acqua messicana, di scommettere al buio, di fare l'autostop, di attraversare non sulle strisce zebrate, di fare tardi, di cogitare, di baciare, di levitare, di farlo al rock, al bop, al bacio, d'abbaiare alla luna, forse quella gente è meramente non autentica, e forse all'umanista fasullo che la dice diversamente sarebbe anche ora che gli friggessero la lingua sulle braci del girone dei bugiardi. C'è dunque chi si nasconde e chi cerca e se il cercare è disattento, nevrotico, disperato o pusillanime allora può essere anche quello un modo di nascondersi. Ma c'è chi vuole sapere e non ha paura di guardare e non taglia la corda quando poi trova - e se per caso non trova mai, comunque se la gode perchè nulla, nè la tremenda verità nè la sua assenza, riuscirà mai a privarlo d'una sincera boccata dei dolci gas che la terra emana".
Tom Robbins, Natura morta con picchio, (Still Life with Woodpecker, 1980)
Tom Robbins, Natura morta con picchio, (Still Life with Woodpecker, 1980)
Wednesday, 6 October 2010
de amore
Ci vuole qualcosa che ti trascini con la forza fuori di te. Poiché hai bisogno di uscire, di essere altro da ciò che sta dentro i tuoi confini, il bisogno esce fuori per primo. E poiché i tuoi confini sono forti, per scardinarli il bisogno ha da essere più forte, travolgere l'io, spossessarti di te.
Tuesday, 21 September 2010
Ristampe
Quand'ero ragazzina pensavo di essere ricca perché avrei ereditato dai miei una bella e grande biblioteca. Crescendo, ho capito che mi sbagliavo sotto quasi tutti i punti di vista: i libri non hanno alcun valore economico, anzi sono un costo e un peso nei traslochi, e solo eccezionalmente interessano o servono a qualcun altro. Soprattutto, i libri invecchiano, e più velocemente di te. I libri che mia madre comprò quando ero bambina ora sono fragili e secchi come un novantenne, da avere paura a toccarli, e mi fa sorridere quel fumetto, Nathan Never, in cui il protagonista si ostina, per romanticismo, a leggere libri di carta e ascoltare dischi in vinile: non so i dischi, ma fra un secolo e mezzo i miei libri saranno in massima parte polvere. (E sì, lo so, si tratta di qualità della carta, e quando si faceva con stracci di cotone ecc. ecc., sed res sic stant).
Ma soprattutto ho capito questo: che i libri sono cose vive. Non sono la carta e l'inchiostro, ma quello che c'è scritto. E come tali muoiono se non sono riprodotti e ripetuti, in questo non dissimili, solo su una scala temporale molto più lunga, dalla memoria nostra, da un contenuto internet o da noi.
Un libro è vivo finché viene ristampato o raccontato, finché se ne parla, finché c'è qualcuno che lo scopre, lo legge, se ne serve, così come un contenuto internet sprofonda se non viene ripetuto, raccontato, segnalato, la nostra memoria si offusca se non ricerchiamo, colleghiamo e ripetiamo quello che contiene (e i suoi contenuti cambiano ogni volta che li ripetiamo), e i nostri organismi restano vivi solo finché ogni cellula ripete se stessa. (Per questo gli studi in cui non fai altro che raccontare e ripetere un libro o un autore, che un tempo tanto disprezzavo, hanno un senso: ripetendo un libro, parlandone, lo si fa esistere, in un certo senso e in qualche misura, e questo vale anche se non se ne facesse altro).
Come tutto, insomma, anche se su un supporto che permette inaspettate resurrezioni, come le tavolette di Uruk o i papiri di Epicuro, e anche se sono parole ferme per sempre, e per questo morte, anche i libri esistono solo se sono costantemente rinnovati.
Non dico e non so se questo sia un bene o un male, ma devo ricordarmene e tenerne conto, questo sì.
Ma soprattutto ho capito questo: che i libri sono cose vive. Non sono la carta e l'inchiostro, ma quello che c'è scritto. E come tali muoiono se non sono riprodotti e ripetuti, in questo non dissimili, solo su una scala temporale molto più lunga, dalla memoria nostra, da un contenuto internet o da noi.
Un libro è vivo finché viene ristampato o raccontato, finché se ne parla, finché c'è qualcuno che lo scopre, lo legge, se ne serve, così come un contenuto internet sprofonda se non viene ripetuto, raccontato, segnalato, la nostra memoria si offusca se non ricerchiamo, colleghiamo e ripetiamo quello che contiene (e i suoi contenuti cambiano ogni volta che li ripetiamo), e i nostri organismi restano vivi solo finché ogni cellula ripete se stessa. (Per questo gli studi in cui non fai altro che raccontare e ripetere un libro o un autore, che un tempo tanto disprezzavo, hanno un senso: ripetendo un libro, parlandone, lo si fa esistere, in un certo senso e in qualche misura, e questo vale anche se non se ne facesse altro).
Come tutto, insomma, anche se su un supporto che permette inaspettate resurrezioni, come le tavolette di Uruk o i papiri di Epicuro, e anche se sono parole ferme per sempre, e per questo morte, anche i libri esistono solo se sono costantemente rinnovati.
Non dico e non so se questo sia un bene o un male, ma devo ricordarmene e tenerne conto, questo sì.
Monday, 17 May 2010
sogni
Sognare, dipingere un quadro, girare un film, scrivere un testo, persino muovere il corpo in una danza o in un gesto quotidiano, sono altrettanti modi di pensare. La parola non è meno materiale del suono di un violino o di un pensiero che si esprime per immagini. E quando sogniamo, non c'è un inconscio che ci parla con i mezzi rozzi e limitati di cui dispone, ma siamo noi che riflettiamo e riordiniamo le idee esattamente come se stessimo parlando fra noi, ma con un altro mezzo diverso dalla parola.
i molteplici fili
C'è stato un tempo in cui pensavo che noi, come i nodi in cui s'intreccia una rete, esistessimo solo grazie ai molteplici fili che ci legano alle persone che amiamo, e che legano queste ad altre e ad altre ancora. Questa corrispondenza mi pareva allora l'unica realtà possibile e degna per il genere umano: le cose umane, mi dicevo, non esistono se non sono comunicate, gli esseri umani non esistono se non grazie ai fili che li intessono alla vita degli altri.
(Ma all'anziana vicina che mi diceva: non esisto per nessuno, non c'è nessuno che mi ami e per cui stare al mondo, cosa avrei potuto rispondere?).
(Ma all'anziana vicina che mi diceva: non esisto per nessuno, non c'è nessuno che mi ami e per cui stare al mondo, cosa avrei potuto rispondere?).
Thursday, 29 April 2010
Goran
Un caffé, per caso, col poeta di "non dirò loro" , e ancora più per caso anche col mio amico Fabio (filosofo gentile e lettore di Ivan Illich): una mattina fortunata, e due cose da ricordare: "per ogni riga, ce n'è sempre un'altra", e: in lingua slava, la parola per "sussurri" e la parola per "bosco" hanno quasi lo stesso suono. Così uno slavo, quando sente parlare di un bosco, ne sente, contemporaneamente, anche il sussurro.
Friday, 12 February 2010
Gli amici del silenzio
Leggendo Il Dio di Gandhi ho capito finalmente il senso delle cose che Pier Cesare Bori cercava vent'anni fa insieme a un gruppo di cui facevo parte, e mi è venuta voglia di rivederlo.
Così gli ho telefonato - e sono immediatamente stata coinvolta nell'incontro del gruppo, che continua ancora oggi (le persone sono cambiate, Bori pure, il modo di incontrarsi anche ... ma è lo stesso gruppo, anche se non lo è).
Bori lo chiama gruppo di lettura, e in effetti vent'anni fa si trattava di leggere insieme i testi delle tradizioni religiose, con l'idea sottesa che tutti i "grandi" testi esprimano un'unica verità - dove per "grande testo" si intendeva testo importante per almeno una tradizione religiosa (o quasi-religiosa: il Simposio fu fra le nostre letture), e che questa verità consenta di costruire un percorso etico fra culture.
Io, che sono una rompiscatole contestatrice, contestavo questa idea, sostenendo che sono grandi testi anche quelli di Primo Levi o Albert Camus.
Ma capisco, oggi, che Bori aveva le sue ragioni: c'è, nei testi fondanti di una tradizione (e il Simposio è tra questi), o meglio si può cercare, una forma specifica di verità, che è quella che Bori cercava, e che è, credo, il Dio Verità di Gandhi. E' possibile che questi testi parlino tutti di una stessa cosa in forme diverse, e che questo contenuto sia quello che suscita devozione e ne fa dei libri sacri. Oppure è possibile che la devozione venga prima, imposta con la spada e con la conquista, e sia devozione al gruppo e al potere che con quella tradizione religiosa e quel testo si identificano, e solo dopo questa devozione venga riempita di contenuti veramente sacri, veri, divini, da tutti gli uomini che si trovano in quel mondo e interpretano la propria verità attraverso quel testo (e in questo caso le letture del testo, in sé insignificante, sarebbero più importanti del testo stesso).
Fatto sta che per me la tradizione non riesce a essere un criterio di verità, neanche se si tratta di mettere insieme diverse tradizioni, e un romanzo di Marion Zimmer Bradley, se dice una cosa che comprendo, per me ha un maggior contenuto di verità del Libro di Ester.
Oggi, si tratta di un gruppo di lettura in senso solo parziale: si leggono, e si commentano, testi di ogni genere, ma soprattutto si sta in silenzio.
Questa pratica del silenzio, Bori la cominciò credo proprio vent'anni fa. La prima volta che la mise in pratica me presente fu subito dopo la Tien An Men: tutti volevamo manifestare sdegno e solidarietà, lui radunò amici e sodali sotto le due torri, e li fece mettere in cerchio, tenersi per mano e stare in silenzio. A me venne una mezza crisi di nervi: ma come! dobbiamo fare qualcosa!
"Fare". Scrivere dei manifesti o partecipare a una manifestazione forse è "fare" più che starsene in cerchio in silenzio. O forse no.
Comunque, ora quando vado a questi incontri sono tutta contenta di starmene mezz'ora in silenzio, e mi sembra una cosa importante - una cosa che crea più solidarietà e mutua accettazione del leggere e discutere, e in cui mi sembra di trovare più verità che in qualsiasi testo.
E forse persino un "fare" più vero.
Così gli ho telefonato - e sono immediatamente stata coinvolta nell'incontro del gruppo, che continua ancora oggi (le persone sono cambiate, Bori pure, il modo di incontrarsi anche ... ma è lo stesso gruppo, anche se non lo è).
Bori lo chiama gruppo di lettura, e in effetti vent'anni fa si trattava di leggere insieme i testi delle tradizioni religiose, con l'idea sottesa che tutti i "grandi" testi esprimano un'unica verità - dove per "grande testo" si intendeva testo importante per almeno una tradizione religiosa (o quasi-religiosa: il Simposio fu fra le nostre letture), e che questa verità consenta di costruire un percorso etico fra culture.
Io, che sono una rompiscatole contestatrice, contestavo questa idea, sostenendo che sono grandi testi anche quelli di Primo Levi o Albert Camus.
Ma capisco, oggi, che Bori aveva le sue ragioni: c'è, nei testi fondanti di una tradizione (e il Simposio è tra questi), o meglio si può cercare, una forma specifica di verità, che è quella che Bori cercava, e che è, credo, il Dio Verità di Gandhi. E' possibile che questi testi parlino tutti di una stessa cosa in forme diverse, e che questo contenuto sia quello che suscita devozione e ne fa dei libri sacri. Oppure è possibile che la devozione venga prima, imposta con la spada e con la conquista, e sia devozione al gruppo e al potere che con quella tradizione religiosa e quel testo si identificano, e solo dopo questa devozione venga riempita di contenuti veramente sacri, veri, divini, da tutti gli uomini che si trovano in quel mondo e interpretano la propria verità attraverso quel testo (e in questo caso le letture del testo, in sé insignificante, sarebbero più importanti del testo stesso).
Fatto sta che per me la tradizione non riesce a essere un criterio di verità, neanche se si tratta di mettere insieme diverse tradizioni, e un romanzo di Marion Zimmer Bradley, se dice una cosa che comprendo, per me ha un maggior contenuto di verità del Libro di Ester.
Oggi, si tratta di un gruppo di lettura in senso solo parziale: si leggono, e si commentano, testi di ogni genere, ma soprattutto si sta in silenzio.
Questa pratica del silenzio, Bori la cominciò credo proprio vent'anni fa. La prima volta che la mise in pratica me presente fu subito dopo la Tien An Men: tutti volevamo manifestare sdegno e solidarietà, lui radunò amici e sodali sotto le due torri, e li fece mettere in cerchio, tenersi per mano e stare in silenzio. A me venne una mezza crisi di nervi: ma come! dobbiamo fare qualcosa!
"Fare". Scrivere dei manifesti o partecipare a una manifestazione forse è "fare" più che starsene in cerchio in silenzio. O forse no.
Comunque, ora quando vado a questi incontri sono tutta contenta di starmene mezz'ora in silenzio, e mi sembra una cosa importante - una cosa che crea più solidarietà e mutua accettazione del leggere e discutere, e in cui mi sembra di trovare più verità che in qualsiasi testo.
E forse persino un "fare" più vero.
Wednesday, 6 January 2010
diventa ciò che sei
... con l'ostinazione di uno di quei pupazzi con cui giocavo da piccola, che avevano un peso nella base, e tu potevi lanciarli, scuoterli, colpirli come volevi, e quelli rotolavano e dondolavano ma poi tornavano sempre in piedi, con quel peso che li teneva saldi e dritti nella posizione che era la loro.
Friday, 23 October 2009
rima rerum
Ci sono parole che raccolgo e porto con me, come un talismano o come un interrogativo, e non so cosa sia che mi spinge a conservarle, o perché le chiami poesia. Ma so, sempre, con immediata sicurezza, riconoscerle: quelle, e non altre.
Così è stato con rima rerum: un riconoscimento immediato di parole importanti, da portare con me - di parole intense e pesanti tanto da affondare dentro di me, abitare la mia immaginazione e riaffiorare come mio proprio sguardo sul mondo.
E, come sempre mi accade, ho voluto parlarne, perché quando amo qualcosa ho bisogno di condividerla, ma tutto quel che sapevo e volevo fare era ripetere versi o frammenti di verso, come questi:
c'è ancora da camminareE in fondo, non c'è veramente bisogno di altro.
la strada è lunga e sul ciglio ci sono gli asfodeli
e vedrai che parlando prenderemo colore.
O non ce ne sarebbe, se queste tre righe così belle e quiete, che spesso ripeto fra me, bastassero a raccontare rima rerum. Ma non bastano affatto. Ne sono forse un approdo, o forse sono soltanto una radura in cui trovare un raro riposo, come la terra sognata e silenziosa di
Sogno a volte una terra di betulleMa sono radure in un sentiero di cardi: rima rerum è anche, e anzi è molto più spesso una violenta ribellione, un cammino aspro e doloroso - e io amo profondamente, di questo libro, tanto la quiete e la dolcezza che raramente ne traspirano quanto la rabbia e la ribellione che lo conducono -
stupita d’erba e d’innocenza
una terra di case dal tetto di frasche
con vaste macerie d’un regno di giganti
e serene montagne in lontananza.
Sogno una terra di silenzio, a volte.
La mia rabbia, dottore,Forse perché io stessa ho bisogno di parole che dicano anche per me la mia rabbia, e perché è anche la mia casa, la mia disciplina la casa ferita nella terra di febbraio, che non ha tetto, né consolazione.
non è una cosa che si possa dire
con le parole scritte nei suoi libri.
Rima rerum si apre con un Varco. Tutte le cose e tutte le parole, vi si dice (con Qohelet 1,8: םיעגי םירבדה־לכ, e la sua impossibile traduzione), sono in travaglio, faticose, difficili, fatigantur, fessa fiunt (parole che, osservo, dal travaglio alla spaccatura, rinviano anche alla generazione e al parto. Tutte le cose sono generate nel dolore). Tutte le cose, tutte le parole sono spaccate. Tutte le cose, tutte le parole sono aperte. La parola latina rima – anch’essa fessa, spaccata – può indicare questa essenziale apertura, questa spaccatura delle cose che si manifesta all’uomo che parla nell’assemblea. (nell'assemblea, osservo e sottolineo, ma lo capirò più tardi).
In Varco si dice anche: che ogni cosa sia aperta, fessa, spaccata non è annuncio di sofferenza, né di gioia. Ma questo non è vero, o lo sarà solo dopo, o soltanto a tratti, per l’uomo aperto, nell’apertura delle cose. Intanto, però rima rerum è una tensione che solo raramente trova quiete, la spaccatura è quasi sempre crepa (fingi di non vedere le aperture / le crepe le fessure le storture) fessura che lascia intravvedere il disagio, la violenza e il dolore, il male che insidia ogni essere, il fatto intollerabile dell’assenza
Non tolleriamo l’assenza. Questo è certo.
Qualunque cosa sia successa è certo
che noi non accettiamo alcuna assenza.
Ecco: rima rerum è un libro che innanzitutto fa anche di te che leggi una cosa o una parola in travaglio, spaccata, faticosa, difficile, ti costringe a reggere insieme all’autore la tensione delle cose e delle parole, a portartela dentro, a seguire un cammino scabro, aspro e doloroso che non ammette rettorica o tregue a buon mercato, e va fino in fondo und sonst gar nichts (se tu ora non mi soccorri, / dandomi ancora un po’ del tuo dolore / sarà stato nulla, tutto meno di nulla) - e forse, giunti fino in fondo, dopo avere non perduto, ma gettato via il nome, il volto, la parola e i pronomi possessivi, ti conduce a raggiungere o a ritrovare l'apertura, gli asfodeli, e la terra di dentro
vorrei dirti tenendoti i seni
della terra di dentro, della terra
liberata dal male e dal dolore, della terra
in cui ognuno ha il nome suo più vero.
Sunday, 18 October 2009
qui, ora, in questo luogo e in questo mondo
Etty HillesumLunedì 4 agosto 1941
A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza di secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri, e con la vista che spazia su campi di grano - devono proprio essere campi di grano, e devono anche ondeggiare al vento. Lì vorrei sprofondarmi nei secoli, e in me stessa. E alla lunga troverei pace e chiarezza. Ma questo non è poi tanto difficile. E' qui, ora, in questo luogo e in questo mondo che devo trovare chiarezza e pace e equilibrio. Devo buttarmi e ributtarmi nella realtà, devo confrontarmi con tutto ciò che incontro sul mio cammino, devo accogliere e nutrire il mondo esterno col mio mondo interno e viceversa, ma è tutto terribilmente difficile e proprio per questo mi sento così oppressa.
Diario 1941-1943, a cura di J. G. Gaardlandt
Adelphi, 1985, p. 53
Avevo bisogno di questi anni?, mi chiedevo poco tempo fa. Sì, ne avevo bisogno, era quello che dovevo fare.
Certo, vagheggio una bellissima casa come quella dove un mio amico ha solitudine, libri e silenzio, e sogno un giorno di avere una cella di convento esattamente come la descrive Etty Hillesum, e il grano deve ondeggiare al vento.
Ma come lei penso: troppo facile.
Troppo facile, e sterile, essere limpidi e calmi in un ambiente protetto. Se non sai vivere fino in fondo su questa terra con tutto ciò che questo comporta, accogliere ciò che ti viene incontro, e condividere la sorte di tutti, ed essere limpida e calma, e in tutto questo, come l'uomo pio che portava a spasso un vaso pieno d'acqua, riuscire anche a pregare - se non sai fare tutto questo, il tuo filosofare non è che un giocare con le biglie.
Tuesday, 13 October 2009
temperamenti
L'adagio è stato fatale: note ribattute che creavano una sospensione, come un piccolo tuffo al cuore, e subito si scioglievano in una dolcezza mai troppo sicura - Mozart, insomma ...
Beh, tutto il resto si poteva ancora reggere, ma lì mia figlia ha cominciato a mimare silenziosissimamente (ero stata tassativa sul silenzio) i gesti del suicidio: mi impicco tenendomi la corda da sola, mi sparo, mi si scioglie la faccia ...
A parte che non aveva bisogno di mimare il suicidio, l'aviss'accisa io stessa, ho pensato: questione di temperamenti. Per me l'adagio è sempre stato il tempo giusto, gli altri movimenti si vabbé, ma l'adagio è pura bellezza universale, di quella che deve da sé imporsi a tutti come l'Uno, il Vero, il Bene.
Questo ha degli inconvenienti: avevo tredici anni, mio babbo doveva fare una trasmissione a radio Alice sul 7 aprile e sull'offensiva di arresti e di terrore che era calata sui compagni, mi chiese di scegliere i brani per gli stacchi musicali (pure lui: ma lo sapeva, con chi aveva a che fare!), e io non ebbi dubbio alcuno: un capolavoro assoluto, Beethoven, settima sinfonia, l'adagio.
Un capolavoro assoluto, non c'è che dire. Gli astanti cominciarono a impiccarsi tenendo la corda da soli, spararsi, sciogliersi la faccia. A mio padre peggiorò la depressione, che già non era molto allegro. A me vennero i primissimi dubbi se l'Uno, il Vero e il Bello siano poi tanto uni, e mi dissi che dovevo studiare il rock and roll (pensai proprio così: studiare, mammamia se ero secchiona!).
Beh, tutto il resto si poteva ancora reggere, ma lì mia figlia ha cominciato a mimare silenziosissimamente (ero stata tassativa sul silenzio) i gesti del suicidio: mi impicco tenendomi la corda da sola, mi sparo, mi si scioglie la faccia ...
A parte che non aveva bisogno di mimare il suicidio, l'aviss'accisa io stessa, ho pensato: questione di temperamenti. Per me l'adagio è sempre stato il tempo giusto, gli altri movimenti si vabbé, ma l'adagio è pura bellezza universale, di quella che deve da sé imporsi a tutti come l'Uno, il Vero, il Bene.

Questo ha degli inconvenienti: avevo tredici anni, mio babbo doveva fare una trasmissione a radio Alice sul 7 aprile e sull'offensiva di arresti e di terrore che era calata sui compagni, mi chiese di scegliere i brani per gli stacchi musicali (pure lui: ma lo sapeva, con chi aveva a che fare!), e io non ebbi dubbio alcuno: un capolavoro assoluto, Beethoven, settima sinfonia, l'adagio.
Un capolavoro assoluto, non c'è che dire. Gli astanti cominciarono a impiccarsi tenendo la corda da soli, spararsi, sciogliersi la faccia. A mio padre peggiorò la depressione, che già non era molto allegro. A me vennero i primissimi dubbi se l'Uno, il Vero e il Bello siano poi tanto uni, e mi dissi che dovevo studiare il rock and roll (pensai proprio così: studiare, mammamia se ero secchiona!).
Thursday, 8 October 2009
daimon
mi dici che svegliarsi a metà della notte è un sintomo di depressione - beh, sì, è possibile, magari anche probabile.
Ma per me la notte è anche e soprattutto l'unico tempo veramente mio, non rubato al lavoro o alle persone che mi circondano - la mia notte è un surrogato di "una stanza tutta per sé".
Così, svegliarmi è quasi un appuntamento, è quello che devo fare, e va bene così.
Il che non toglie che io abbia talvolta momenti di oscurità totale, o momenti in cui la fatica mi sembra superiore alle mie forze. Ma quello che devo fare comporta errori, fatica, dolore e anche disperazione, e va bene così.
Ecco, la cosa veramente strana in tutto ciò non è la fatica, e neanche la confusione: è il senso di "e va bene così", questa certezza assoluta che ci sia un "quello che devo fare", del quale fa parte anche alzarmi a metà della notte.
Questa certezza assoluta che ha la priorità su ogni altra cosa, e che mi indirizza con forza irresistibile, mi obbliga a certe cose, costi quel che costi, mi rende del tutto indifferente ad altre a cui in teoria dovrei dare importanza, e mi allontana con certezza da altre ancora, senza che io veda una ragione precisa di questa lontananza se non che "non è quello".
Poi, ognuno si fa le sue illusioni come gli pare: io mi sono fatta questa.
Ma per me la notte è anche e soprattutto l'unico tempo veramente mio, non rubato al lavoro o alle persone che mi circondano - la mia notte è un surrogato di "una stanza tutta per sé".
Così, svegliarmi è quasi un appuntamento, è quello che devo fare, e va bene così.
Il che non toglie che io abbia talvolta momenti di oscurità totale, o momenti in cui la fatica mi sembra superiore alle mie forze. Ma quello che devo fare comporta errori, fatica, dolore e anche disperazione, e va bene così.
Ecco, la cosa veramente strana in tutto ciò non è la fatica, e neanche la confusione: è il senso di "e va bene così", questa certezza assoluta che ci sia un "quello che devo fare", del quale fa parte anche alzarmi a metà della notte.
Questa certezza assoluta che ha la priorità su ogni altra cosa, e che mi indirizza con forza irresistibile, mi obbliga a certe cose, costi quel che costi, mi rende del tutto indifferente ad altre a cui in teoria dovrei dare importanza, e mi allontana con certezza da altre ancora, senza che io veda una ragione precisa di questa lontananza se non che "non è quello".
Poi, ognuno si fa le sue illusioni come gli pare: io mi sono fatta questa.
Tuesday, 22 September 2009
Hai pensato a me, quest'oggi?

Non è stato come entrare in clausura: in clausura si entra per far pulizia, per eliminare il superfluo; ma io, al contrario, ho accumulato un eccesso. Mi sono messa, e lasciata mettere, in una condizione che mi costringe ad essere sempre in altro, fuori da me stessa.
E sì, c'era senz'altro il bisogno di tacere, il senso che dentro me stessa non ci fosse più nulla - nulla di abbastanza forte per essere, o qualcosa che per essere doveva accumularsi in silenzio. In silenzio, e in mezzo al rumore: qualcosa che doveva poter convivere col rumore e riuscire a crescere nonostante tutto (come i bambini himalayani battezzati nei torrenti gelati).
Così, mi sono cercata questa casa aperta ai quattro venti, dove l'aria, le richieste e il rumore spazzano via i pensieri, e devi stringerli e ancorarli con tutte le tue forze mentre agisci, fai le innumerevoli e inutili cose che ci sono da fare, e rispondi a domande tanto urgenti quanto vuote.
E penso spesso a quella storia che lessi da bambina, dell'uomo pio a cui Allah chiese di portare a spasso per l'intera giornata un vaso pieno d'acqua fino all'orlo, e alla fine della giornata gli chiese: hai pensato a me, quest'oggi?
Thursday, 6 August 2009
la corrente
Racconto a mia figlia storie di reincarnazione, perché abbia qualcosa per pensare la morte e, spero, non la tema. E non temo la morte per me.
Ma quello che non sono in grado di raccontarle è che qualunque spiegazione, interpretazione, qualunque cosa si pensi della morte non cambia il fatto che di chi è morto resta sempre l'assenza - restano sempre le cose che avresti potuto dire soltanto a lui, che avrebbe potuto rispondere soltanto lui, una casa in cui non potrai più entrare, un sapore e un odore che ora mancano.
Spinoza diceva che ciascuno esprime in modo certo e determinato l'essenza infinita di Dio, e che questo modo è vero, eterno (sentimus experimurque, nos aeternos esse), ed è addirittura l'oggetto dell'unica conoscenza vera. Diceva Spinoza.
Io, per me, so che sono questo sapore e questo odore che vanno irrimediabilmente perduti quando muore qualcuno; e allora possiamo consolarci immaginando quel qualcuno in un altro luogo, rintracciandone i frammenti fra le persone che gli furono amiche, cercarlo magari, se ne ha lasciati, nei suoi scritti (i morti rispondono su facebook? si chiedeva una volta uno che mi è molto caro). Ma nulla di tutto questo ci riporta quel sapore e quell'odore - il sapore e l'odore si avvertono soltanto nella presenza, qui ed ora. I morti non rispondono su facebook, non avrò più risposte da loro - essere morti vuol dire non poter più rispondere o cambiare, vuol dire che quel sapore e quell'odore, qui ed ora, sono perduti irrimediabilmente. L'assurdo, Camus perdonami, non è "Dio bara, e il mondo con lui", è il fatto che quel sapore e quell'odore, e quella corrispondenza, non si trovino più da nessuna parte (e se dovessi pensare che non ci sono più perché mi sono stati tolti, fosse pure per rapirli in cielo, non ci sarebbe nessuna possibile giustificazione per questo).
Per cui, io non credo che la morte depositi in alcun dove la vita che hai vissuto.
O forse sì: la deposita nella corrente, dove anche tu la depositi ogni giorno, e dove rimangono frammenti e pietre preziose che altri, magari con meraviglia, gratitudine, e sensazione di aver reincontrato un amico, scopriranno prima o poi dentro di sè.
(didonai gar allelois).
Ma quello che non sono in grado di raccontarle è che qualunque spiegazione, interpretazione, qualunque cosa si pensi della morte non cambia il fatto che di chi è morto resta sempre l'assenza - restano sempre le cose che avresti potuto dire soltanto a lui, che avrebbe potuto rispondere soltanto lui, una casa in cui non potrai più entrare, un sapore e un odore che ora mancano.
Spinoza diceva che ciascuno esprime in modo certo e determinato l'essenza infinita di Dio, e che questo modo è vero, eterno (sentimus experimurque, nos aeternos esse), ed è addirittura l'oggetto dell'unica conoscenza vera. Diceva Spinoza.
Io, per me, so che sono questo sapore e questo odore che vanno irrimediabilmente perduti quando muore qualcuno; e allora possiamo consolarci immaginando quel qualcuno in un altro luogo, rintracciandone i frammenti fra le persone che gli furono amiche, cercarlo magari, se ne ha lasciati, nei suoi scritti (i morti rispondono su facebook? si chiedeva una volta uno che mi è molto caro). Ma nulla di tutto questo ci riporta quel sapore e quell'odore - il sapore e l'odore si avvertono soltanto nella presenza, qui ed ora. I morti non rispondono su facebook, non avrò più risposte da loro - essere morti vuol dire non poter più rispondere o cambiare, vuol dire che quel sapore e quell'odore, qui ed ora, sono perduti irrimediabilmente. L'assurdo, Camus perdonami, non è "Dio bara, e il mondo con lui", è il fatto che quel sapore e quell'odore, e quella corrispondenza, non si trovino più da nessuna parte (e se dovessi pensare che non ci sono più perché mi sono stati tolti, fosse pure per rapirli in cielo, non ci sarebbe nessuna possibile giustificazione per questo).
Per cui, io non credo che la morte depositi in alcun dove la vita che hai vissuto.
O forse sì: la deposita nella corrente, dove anche tu la depositi ogni giorno, e dove rimangono frammenti e pietre preziose che altri, magari con meraviglia, gratitudine, e sensazione di aver reincontrato un amico, scopriranno prima o poi dentro di sè.
(didonai gar allelois).
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