Saturday 18 December 2010

violenza e non

Sono due problemi diversi: la violenza è controproducente, la violenza è sbagliata. Perché la violenza potrebbe essere giustificata anche se è controproducente.

Terzo problema, se sia inevitabile: un incendio, quando è partito, è inevitabile. Questo non vuol dire che sia giusto, o utile, né che ci si debba buttare nel fuoco invece di cercare di contrastarlo. I tuoi studenti, ciascuno di loro e tutti insieme, possono scegliere cosa fare e possono ragionare sulla scelta, etica e di opportunità, e in questo senso la violenza non è inevitabile.

Quello che dico è che:
1. non riconosco a rappresentanti politici che non hanno saputo indicare prospettive - e non sono scesi in piazza con i loro rappresentati martedì scorso - il diritto di condannare una violenza di cui sono responsabili con la loro incapacità e la loro ignavia.

2. per contrastare la violenza ci vuole autorevolezza, o per meglio dire ci vuole essere degni di fiducia, ed essersi dimostrati tali con le proprie parole e azioni (con la coerenza, l'onestà, l'attenzione ...). Tu lo sei, e i tuoi studenti lo sanno. I politici che stigmatizzano la violenza invece non fanno che ripetere uno "state buoni e lasciate fare al manovratore" che non ha più alcun diritto di esistere.

3. la violenza fa comodo al governo, almeno finché può servirsene per giustificare una violenza repressiva maggiore, e la presenza di infiltrati e provocatori lo dimostra. Può essere che il livello di delegittimazione sia tale che in realtà quest'arma gli si ritorca contro. Può anche darsi che dal caos nascano nuove forme di azione politica, o anche semplicemente che i conflitti sociali costringano le forze di rappresentanza politica a cambiare direzione. Francamente, non lo so, e quindi non so se la violenza sia controproducente.

4. per giudicare se sia giusta o sbagliata, bisognerebbe intendersi su cosa significa "violenza", perché troppo spesso, ultimamente, è stata tacciata di violenza qualunque forma di opposizione. Per me è violenza dire "+ vedove - poliziotti", non è violenza fare una barricata. E' violenza venir meno, in qualunque forma, al riconoscimento dell'altro essere umano e del suo valore. Non è violenza fare cose che disturbano la quiete pubblica.

Tuesday 7 December 2010

La storia con i se

Chiedersi cosa sarebbe successo "se" i nazionalsocialisti avessero vinto potrebbe non essere un esercizio così ozioso: potrebbe per esempio portare a chiedersi cosa sarebbe cambiato veramente, e quindi quali siano le effettive discriminanti storiche - bada, non sto dicendo che tutto sarebbe stato uguale, ma che il tempo presente non andrebbe reso giusto semplicemente in nome della vittoria sul "male assoluto", esentato dal rispondere su cosa sia stato diverso per quella vittoria (esentando con lo stesso gesto il "male assoluto" da ulteriori indagini sulla sua natura, che lo renderebbero forse un po' più male e un po' meno assoluto). In ogni caso, fa sempre bene ricordare che la vittoria è pur sempre un fatto aleatorio e non conferisce alcuna patente di bontà, giustizia, verità, che non esiste alcun "tribunale della storia" e che, direbbe il nostro, lo stupore perché certe cose succedono "ancora" non è filosofico.

Tuttavia, hai ragione: Benjamin non sta parlando di un "se" qualunque, sta parlando di un cumulo di rovine da riparare e di un "avrebbe potuto" che dev'essere realizzato, portato a compimento, e sta dicendo che ci sono "Zuversicht, Mut, Humor, List, Unentwegtheit" che operano a ritroso e mettono in discussione ogni vittoria che sia toccata a chi è al potere (IV th).
Sullo statuto di quel "se" ci dice molto, credo, una frase che conclude proprio la XII tesi nella traduzione francese: "la nostra generazione ha pagato per saperlo, poiché la sola immagine che resterà di essa è quella di una generazione vinta. Questo sarà il suo legato a coloro che verranno". Innanzitutto, allora, la sconfitta che non era ineluttabile è quella, molto concreta, della sua generazione.

In secondo luogo, Benjamin mi sembra molto chiaro su un altro punto: non sta parlando di un ideale da raggiungere, anzi si sta opponendo con tutte le forze proprio a questo. Sta parlando di presenza, shekinah, se ci piace utilizzare il linguaggio cabalistico, e azzardando un po’ potrei dire che sta parlando del “noi” che compariva in un vecchio striscione anarchico: “tutte le guerre contro di noi, noi contro tutte le guerre”.

Io credo che la chiave stia proprio in quell' "avrebbe potuto", non nel senso che un vincitore avrebbe potuto perdere e viceversa, ma in quello che avrebbe potuto essere, cioè in tutto quanto di vita, di gioia, di parole, avrebbero potuto essere e sono state schiacciate dai vincitori, e, da questo punto di vista, quello che conta non è chi sia il vincitore, ma il fatto stesso che ci sia: che ci sia un vincitore, ed un vinto, e il fantasma inquieto dell'essere che avrebbe potuto venire alla luce attraverso la complicità degli uomini tra loro.

Le voci degli ammutoliti

L'immagine di felicità che coltiviamo in noi è tutta intrisa del colore del tempo a cui ci ha assegnato una volta per tutte il corso della nostra propria esistenza. Una felicità che potrebbe risvegliare in noi l'invidia si dà solo nell'aria che abbiamo respirato, con uomini, a cui avremmo potuto parlare, con donne, che avrebbero potuto farci dono di sé. In altre parole, nell'idea di felicità risuona ineliminabile l'idea di redenzione. Ed è lo stesso per l'idea che la storia ha del passato. Il passato reca in sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. non soffia forse anche in noi un soffio dell'aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci a cui prestiamo ascolto, un'eco di voci ora ammutolite? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a buon mercato. Il materialista storico ne sa qualcosa.

Benjamin, II tesi sul concetto di storia, trad. Solmi

Friday 3 December 2010

Dell'impossessarsi dei morti

Non stiamo parlando, qui, della vergogna  di sopravvivere, del  nostro sentirci in debito o in colpa verso i morti, o della paura che i morti prendano vendetta di questa colpa. Tutto questo è vero: c'è, una vergogna nel sopravvivere, e deve esserci: "il diritto allo splendore, alla ricchezza, alla miseria e alla disperazione di ogni esperienza me lo sono conquistato ribellandomi alla morte" è la frase che mi ha legata per sempre a Canetti.

Ma non di questo stiamo parlando.

Stiamo parlando dei morti che abbiamo amato e ostinatamente amiamo, la cui assenza ci è intollerabile, e per i quali ci teniamo stretto il dolore perché anch'esso è una forma di presenza, e ci sembra che lasciarlo andare sarebbe tradirli e accettare di perderli.

Per questi morti, non c'è nulla di quieto nel riconoscere che non c'è più qualcuno che possa o voglia corrispondere alle nostre domande. Al contrario, ciò che è in questione qui è se siamo capaci, noi vivi, di reggere una disperazione così grande. E' senza fondo il dolore di non sperare in una risposta.

E il rispetto non è quieto vivere, ma riconoscere che neanche l'amore più grande è una giustificazione o un titolo di possesso. E' facile, impossessarsi dei morti, fare i decennali di De André (che chissà quanto ne avrebbe riso), dichiararsi sodali, partecipi, vicini, e fare - letteralmente - dei morti quello che ci pare, anche con tutto l'amore possibile e in nome di questo amore.
E' facile, anche, impossessarsi dei morenti, rifiutar loro di morire perché li amiamo e sono nostri (perché la morte è anche questo, abbandono e tradimento dei vivi).

Più onorevole, credo, coltivare in noi stessi e negli altri ciò che del morto è ancora vivo, se siamo capaci di trovarlo e riconoscerlo. Accettare con gratitudine in noi le visite che il morto decide di farci nella memoria, nei sogni, nei pensieri, ma riconoscere la sua lontananza, la sua assenza, il fatto che non ci appartiene.