Monday 24 May 2010

Tenere il punto

C'è un principio, nel ki-aikido, che da solo vale tutta una disciplina: se, di fronte a una spinta o a una pressione esterna, tu cerchi di esercitare una pressione contraria e più forte, oppure se indietreggi e cerchi di sottrarti alla spinta, hai comunque perduto l'equilibrio; bisogna, invece, tenere fermo il punto (il ki). Nel ki-aikido, l'arte di far cadere l'aggressore attraverso la sua stessa forza non è che un corollario di questa capacità di essere irremovibili, e quindi flessibili, nel tenere il punto (che può essere il baricentro del corpo, poco sotto l'ombelico, ma anche un semplice atomo tenuto fermo fra il pollice e l'indice).
Questo è l'ideale a cui tendo.

Ed è anche la mia idea di lotta nonviolenta: c'è qualcosa, un punto, un atomo, che intendo tenere fermo, e attorno a cui sono irremovibile, è per questo che non ho bisogno né di aggredirti né di fuggire. E' il punto che fa la differenza fra violenza e lotta, e anche fra lottare e agitarsi scompostamente.
Ecco.
Noi non siamo un "noi" perché non sappiamo più qual'è il punto.
E quindi possiamo solo reagire, o sottrarci, sempre compiendo la seconda mossa, e sul campo scelto dall'avversario.
Per questo credo che l'essenziale, la cosa più urgente di tutte, sia stabilire qual'è il nostro punto: è attorno a questo che può esserci un "noi", non per una sommatoria di reazioni, disgustate, violente o agitate che siano.

Monday 17 May 2010

sogni

Sognare, dipingere un quadro, girare un film, scrivere un testo, persino muovere il corpo in una danza o in un gesto quotidiano, sono altrettanti modi di pensare. La parola non è meno materiale del suono di un violino o di un pensiero che si esprime per immagini. E quando sogniamo, non c'è un inconscio che ci parla con i mezzi rozzi e limitati di cui dispone, ma siamo noi che riflettiamo e riordiniamo le idee esattamente come se stessimo parlando fra noi, ma con un altro mezzo diverso dalla parola.

e avremmo passato, tra musica e discorsi, un paio d'ore sovrumane

"Non avevo più bisogno di vino. La traccia d'oro aveva mandato un baleno, mi aveva ricordato l'Eterno e Mozart e le stelle. Potevo respirare per un'ora, potevo vivere, mi era lecito esistere, non occorreva che soffrissi, che avessi timore, che mi vergognassi. (...)
Oh, avessi avuto un amico, un amico in una soffitta, intento a meditare al lume di candela con accanto un violino! Come lo avrei sorpreso nel silenzio notturno arrrampicandomi senza far rumore su per le scale angolose! e avremmo passato, tra musica e discorsi, un paio d'ore sovrumane"
Herman Hesse, Il lupo della steppa, Mondadori 1979, p. 73

i molteplici fili

C'è stato un tempo in cui pensavo che noi, come i nodi in cui s'intreccia una rete, esistessimo solo grazie ai molteplici fili che ci legano alle persone che amiamo, e che legano queste ad altre e ad altre ancora. Questa corrispondenza mi pareva allora l'unica realtà possibile e degna per il genere umano: le cose umane, mi dicevo, non esistono se non sono comunicate, gli esseri umani non esistono se non grazie ai fili che li intessono alla vita degli altri.
(Ma all'anziana vicina che mi diceva: non esisto per nessuno, non c'è nessuno che mi ami e per cui stare al mondo, cosa avrei potuto rispondere?).

Thursday 13 May 2010

l'anarchismo di Corona

M.R.: - Mi sintonizzo in streaming su raidue: Fabrizio Corona dice: Io politicamente sono anarchico. P**** D**

D'accordo: è qualcosa di più e di peggio di una neolingua, quella che i parolieri del signor B ci tambureggiano nelle orecchie. E' prendere le parole e schiacciarle ai propri significati, insultarle, distruggerle moralmente. Renderle irriconoscibili e inutilizzabili. Uno stupro di guerra applicato alle parole, dove "anarchia" non significa più rifiuto di dominare, ma la volgare aspirazione a non sottostare a nulla e a nessuno.

Ma c'è anche qualcos'altro, che mi inquieta: c'è di vero, in questo ribaltamento della parola anarchia, che in questo momento a voler distruggere lo stato sono loro, è il nemico; e a me sembra che questa distruzione sia un disegno perseguito con grande lucidità e costanza, in cui la banda di criminali impuniti a cui siamo ormai abituati serve a distruggere le leggi, mentre le "riforme" e le piccole scelte (impercettibili) di tutti i giorni servono a distruggere la scuola pubblica, la sanità pubblica, tutto ciò ch'è pubblico e comune ...

Monday 10 May 2010

tutto ciò che possediamo davvero

Una volta, con F., facevamo una specie di gioco a partire dal "tempus tantum nostrum est" di Seneca: "il tempo è tutto ciò che possediamo davvero".
No, si diceva: "gli altri sono tutto ciò che possediamo davvero"
No, si rispondeva "... è tutto ciò che possediamo davvero"
Questa discussione su cosa sia che possediamo davvero, su quale sia la cosa bella ed essenziale che è davvero un nostro umano possesso era in se stessa una cosa bella.
Era anche una discussione su qual'è la cosa che non si deve perdere, che va rivendicata come il tempo di Seneca.
Qualche giorno fa ho riletto il blog di Buio, e ho pensato: "le parole sono tutto ciò che possediamo davvero".

Monday 3 May 2010

Ipazia - segnalazioni

... e, visto che la figura sempre più mi sembra centrale, e punto di partenza di una necessaria riflessione, inauguro qui una raccolta di link, segnalazioni, notizie.

Luciano Canfora in: "Ipazia, una donna per la libertà", video - 15 minuti spesi bene, http://www.youtube.com/watch?v=0nVu1MCgrg8



Innanzitutto, un fantastico dibattito è partito su phenomenologylab.eu, a partire dall'articolo di Roberta de Monticelli (l'avevo già segnalato) e dalla replica di Franco Cardini:
http://www.phenomenologylab.eu/index.php/2010/04/ipazia-agora-amenabar/

Poi, il libro, naturalmente
Ipazia, storia della prima scienziata vittima del fondamentalismo religioso: la prefazione di Margherita Hack al libro "IPAZIA. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo d.c." di Antonio Colavito e Adriano Petta, La Lepre Edizioni.
(il libro non l'ho letto: quando si comincia col parlare di "sogni" per una scienziata mi innervosisco).

Umberto Eco, Ipaziammo! , dove si ironizza sulla teoria del complotto e si dubita "che le forze oscure della reazione in agguato stessero per impedirne la circolazione in Italia" (di Agorà), ma si riporta che "la distribuzione italiana era piuttosto esitante a far circolare un film che forse avrebbe suscitato forti opposizioni da parte cattolica, compromettendone la circolazione". In effetti, è facile immaginare che le cose siano andate proprio così. Il bello dell'Italia è questo, che le forze oscure della reazione non hanno bisogno di scomodarsi, non vi disturbate, che per non rischiare si fa già da noi...
Eco segnala a sua volta, come fonte seria (e se lo dice lui, che non ipazzisce certo ma è un signore serio e posato ...) Enciclopedia delle donne e consiglia di cercare gli studi di Silvia Ronchey, che in effetti meritano - io ho visto questo pdf su imperobizantino.it

http://www.facebook.com/pages/Agora-il-film-su-Ipazia-di-Alessandria-Amenabar-2009-in-Italia/165517146693

http://www.guardian.co.uk/film/2010/apr/25/agora-review

Agorà

Mi hanno detto che con il post precedente sembro voler difendere il cristianesimo - visto che dico che il cristianesimo è la prima vera rivoluzione. La mia invece era una critica alla rivoluzione, o meglio al modo in cui, pare inevitabilmente, la pensiamo. Ma visto che quel che pensavo lo dice, e meglio, Giona A. Nazzaro su Micromega, lo cito:
"Amenabar concentra invece la sua attenzione sul sorgere del cristianesimo focalizzando correttamente il suo sguardo sull’aspetto libertario ed egualitario del messaggio di Cristo. Infatti la società alessandrina, per quanto fosse avanzata ed esemplare, era divisa ferocemente in classi e la sua economia si reggeva sulla schiavitù. La forza politica e l’autorità morale dei protocristiani si afferma quindi attraverso il proclamare l’uguaglianza di tutti gli uomini. Inevitabile il diffondersi rapido di tesi che si rivolgono a strati amplissimi della popolazione alessandrina mettendo in discussione il primato di un numero ristretto di persone.

Coraggiosamente Amenabar in questo scontro di pensieri opposti riesce a evocare in controluce la polemica nietzschiana nei confronti del cristianesimo: gli schiavi non esistono più non perché abbiamo abbattuto la schiavitù ma perché tutti siamo diventati degli schiavi. Uguaglianza quindi non come ricerca della massima felicità possibile, ma come minimo comune denominatore verso il basso. La vita stessa viene ridotta a quella condizione di schiavitù che si affermava di voler abbattere. Per ricordare agli uomini che sono tutti uguali, si estende a tutti la medesima condizione di schiavitù e miracolosamente la schiavitù non esiste più. Un solo pensiero sostituisce tutti i possibili pensieri e Dio gli Dei. Di conseguenza il cristianesimo, collante dell’Europa secondo Novalis (e non solo), diventa il prototipo per eccellenza del pensiero unico. E il rogo della biblioteca di Alessandria anticipa drammaticamente i roghi dell’inquisizione e quelli nazisti atti a purificare la cultura degenerata.

La figura di Ipazia in questo scontro di culture emerge come una portatrice di complessità. Quella di Ipazia è già una condizione dell’esilio. Né dentro e né fuori il suo mondo che si lacera in presenza del sorgere di un altro ordine, Ipazia vive già la condizione moderna del nomadismo del pensiero. Avendo abbattuto le frontiere che porta dentro di sé assurge alla condizione di sradicata. Quindi lei è già altrove. Ipazia scruta il firmamento pensando ad altre modalità di esistenza e intanto nelle strade e nelle catacombe si progetta il rogo dei libri.

In questi momenti il film di Amenabar riesce davvero a comunicare uno struggimento sincero per tutte le possibilità non colte. La solitudine di Ipazia diventa la solitudine della ragione in un mondo dove circolano arroganti portatori di verità assolute, miracoli, rivelazioni e vendette divine. La parola di Dio cancella di fatto la possibilità della moltitudine delle possibili parole degli uomini. Il vero scandalo non è l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio quanto la presunta parola di Dio elevata a modello unico (immagine) di quelle che dovrebbe pensare e pronunciare l’uomo, precludendo così indagine, rischio, ricerca dal novero delle possibili attività umane. La disubbidienza diventa quindi l’imperativo morale di chi resta al di qua della parola di Dio. E pensare continua a essere pericoloso."