Forse, chissà, lo sguardo feroce della belva occidentale cristiana viene proprio da questo: dall'immagine del Cristo in croce, e dalla redenzione - o dalla sua ricerca. Dal pensiero che esista una possibile redenzione del male, che l'infranto possa essere ricomposto. Che si possa assumere su di sé il male del mondo, come fece l'uomo che soffrì sulla croce. Che si possa, e si debba, imitare Cristo - non il Cristo re, ma proprio il Cristo uomo di "Eli, eli, lama sabachtani".
Chi assume su di sè la sofferenza dell'uomo in croce in qualche modo è già assolto, si è collocato dalla parte del dolore e della vittima, come dice Canetti - ma anche, e forse soprattutto, si colloca in un mondo dove esiste una remissione del peccato, dove c'è un dio a cui chiedere conto, ma anche espiazione e redenzione del male.
Un coraggioso stare nel mondo, allora, sarebbe proprio il contrario: non credere di poter assumere su di sé il male, non credere che esista una possibile redenzione, e rinunciare anche alla superstizione o al pensiero magico di avere un dio a cui chiedere conto o perdono. E al contrario assumere fino in fondo su di sè il peso di questo: che non c'è alcun modo di rimediare al male, una volta che è; che non c'è remissione, ma cause e conseguenze; che il pentimento o la penitenza aggiungono solo male al male, ma non redimono proprio nulla.
(nessun nume, o altro, ma soltanto un invidioso ...)
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