" Quando parlo di religione secolarizzata penso soprattutto a Bonhoeffer. Il quale sosteneva che la secolarizzazione - che tanto spaventa Ratzinger e la chiesa post-conciliare - rappresenta un’occasione storica per il cristianesimo: l’occasione di liberarsi dalla religione e dal suo Dio tappabuchi per realizare pienamente la fede. La religione si alimenta della debolezza dell’uomo, cerca di rassicurarlo, anche apologeticamente si appoggia alla sofferenza, alla malattia, alla morte, per proporre le sue “ipotesi di lavoro”. La fede fa a meno della rassicurazione, crede in un Cristo crocifisso e debole, che non può aiutare, che condivide la sofferenza, ma non salva dal male. Questa è la fede cristiana in quella che Bonhoeffer considera l’ “erà adulta” del mondo - ed è una fede che sono portato ad accostare all’idea assolutamente laica, ed altissima, della persuasione di Carlo Michelstaedter, quel coraggioso stare nel mondo senza più appoggi, rassicurazioni, consolazioni.
Penso che ci sia un viaggio da compiere, un viaggio difficile, anche doloroso: il viaggio oltre sé stessi. Rendersi la vita impossibile, e provare così tuttavia a vivere, può essere un buon modo di intraprendere questo viaggio - o forse anche, sì, par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens. Invertendo i termini di Bonhoeffer, chiamo ciò religione - perché lega il sé a qualcos’altro, fino a schiantarlo in esso -, mentre la fede mi sembra lusinga dell’io, un additivo che, volendo preservare la vita, la corrompe.
Certo, mi rendo conto di semplificare. La fede non ha solo un messaggio per l’individuo, ma è anche costruttrice di collettività, e possono essere collettività feroci o compassionevoli, barbariche o raffinate. C’è, come dici, “quello che fa alle persone”. Il mio rifiuto del cattolicesimo è prevalentemente un rifiuto estetico. E’ il rifiuto di una religione degli occhi torti al cielo, delle spade nel cuore, delle processioni dolenti, dei canti deprimenti, dell’esteriorità ostentata fino al ridicolo. Etico, poi. Duemila anni di cristianesimo non sono riusciti ad ammansire la belva occidentale, che ha ancora lo sguardo feroce - e quando prova a dire parole dolci la sua voce suona terribilmente falsa, affettata. Duemila e cinquecento anni di buddhismo hanno lasciato invece sul viso della gente quel “sorriso doloroso e delicatissimo” di cui parla Pietro Citati a proposito di un portiere dello Sri Lanka in un suo memorabile articolo:*A nessuno, neppure al più odioso inquilino, nega il proprio sorriso. Non è mai servile. Dal suo uomo-dio, e dagli innumerevoli Bodhisattva, che hanno passeggiato in Oriente, ha appreso che la virtù suprema è la compassione – questo cuore della gentilezza. Con la compassione si placano le anime, si risolvono le difficoltà, si diffonde la quiete, si rallegrano i cuori, si permette all’universo di procedere in una nube di incenso e di miele. L’anno scorso ha innalzato nel nostro portone un piccolo albero di Natale, con tutte le candele, le luci e i piccoli doni: una specie di ex-voto agli dèi cattolici della casa e della città. L’albero era stento, storto e goffo. Allora lui si è scusato col suo grande sorriso doloroso, e ci ha detto: “Scusatemi, io non so farlo bene, sono buddhista”. Mai albero di Natale – non certo quelli immensi innalzati negli Stati Uniti o in piazza San Pietro – ha fatto tanto per la quiete dei nostri cuori.
Probabilmente non sarebbe stata possibile questa impresa - imprimere quel sorriso sul volto di milioni di persone - senza i racconti, le immagini, i suoni di cui parli. Sono consapevole della forza del fantastico, delle numerose vie attraverso le quali una religione giunge a parlare ad un popolo. Ma so anche che esso ha molti rischi. Il principale è, appunto, quella della riduzione della religione a strumento di consolazione, la fine del viaggio oltre sé stessi. Ciò avviene anche nel buddhismo. Scrive ad esempio Melford E. Spiro a proposito del buddhismo theravada birmano (ma le sue osservazioni valgono in generale per i paesi di tradizione theravada):Tipicamente, invece che a rinunciare al desiderio (e al mondo), i buddhisti aspirano ad una futura esistenza mondana in cui tale desiderio possa trovare soddisfazione. Al contrario del buddhismo nirvanico, che afferma che la frustrazione è una caratteristica dell’esistenza samsarica, essi considerano la loro sofferenza uno stato temporaneo, il risultato della loro posizione attuale nel samsara. Ma vi sono altre forme di esistenza samsarica che producono grande piacere, e che loro sperano di raggiungere.**
A livello popolare, il buddhismo theravada non è dunque troppo diverso dal cattolicesimo: entrambi promettono una seconda vita felice, se ci si comporta in un certo modo in questa.
La religione di cui parlo sfugge a queste riduzioni, anche perché non si lascia toccare dal fantastico e dalla narrazione. Mi affascinano le grandi raffigurazioni dei templi, i miti, le storie sacre, ma più di tutto amo la sublime castità di linguaggio dei mistici, che costeggia il silenzio - e l’indicibile.
* Grazie a Ludò.
** M. E. Sapiro, Buddhism and society. A great tradition and its burmese vicissitudes, University of California, Berkeley-Los Angeles 1982, p. 67."
"Antonio Vigilante
Tuesday, 22 September 2009
Dérèglement
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molto interessante. grazie!
ReplyDeletetuttavia (riflesso condizionato da canettiana di ferro) temo che la bellicosità e la violenza proprie della muta di caccia siano connaturate alle religioni del lamento (Massa e potere, Muta e religione / religioni del lamento, Adelphi 1981, pp.174 ss.)
ReplyDelete"...più di tutto amo la sublime castità di linguaggio dei mistici, che costeggia il silenzio - e l’indicibile."
ReplyDeleteCara Ipazia, permettimi di rivolgerti un invito a visitarmi.
Ciao!
Grazie Arnaldo, ho raccolto l'invito e ne sono felice.
ReplyDeleteMa qui, ti segnalo, non era un mio post, ma una citazione di un post per me particolarmente importante da minimokarma.