e apertamente dedicai il cuore alla terra, grave e sofferente. E spesso, nella notte sacra, promisi d'amarla fedelmente, senza paura, col suo greve carico di fatalità. Così, mi avvinsi ad essa di un vincolo mortale (Holderlin, La morte di Empedocle, citato da Camus in exergo a l'uomo in rivolta)
La questione, per me, è in fondo piuttosto semplice, ed è come la mette Camus: l'uomo in rivolta si rivolta in nome di qualcosa, riconosce l'esistenza di un "se noi non siamo, io non sono" e per affermarlo è disposto ad andare anche all'inferno. Afferma una radicale solidarietà con l'essere, se ne proclama parte che non solo non può, ma non vuole e non deve chiamarsene fuori. Io non ho un altrove dove collocare il bene, nulla in nome di cui condannare la vita e il mondo.
Questo non vuol dire che non mi rivolti, o che non riconosca come tali il dolore, la sofferenza, il semplice disagio, o che io tolleri l'assenza degli scomparsi. Ma credo che sia più onesto stare con la sofferenza, quando e dove c'è, riconoscerla come tale, senza farne la cifra del mondo e senza condannare in suo nome tutto ciò della cui perdita, o mancanza, o distruzione io soffro. Ci sono alcune frasi che ho preso come imperativi per me, e una è "ci vuole forza d'amore, e coraggio" - ancora del retoricissimo Camus.