Friday, 29 January 2010
Zanna Bianca
Scott scosse il capo e continuò a tentare di guadagnarsi la fiducia di Zanna Bianca.
Zanna bianca era sospettoso: c'era in aria qualcosa. Aveva ucciso il cane di quel dio, aveva morso il dio suo compagno, e che altro poteva aspettarsi se non qualche terribile punizione? Eppure l'affrontava impavido. Rizzò il pelo e mostrò i denti, l'occhio vigile, il corpo teso e pronto a tutto. Il dio non aveva bastone, sicché lo lasciò avvicinare. La mano del dio si era stesa, e ora gli scendeva sulla testa. Zanna bianca si rannicchiò tutto, sempre più nervoso, appiattandosi sotto di essa: lì era il pericolo, qualche tradimento, chi sa che cosa. Conosceva le mani degli dei, la loro provata maestria, l'abilità di far male; e poi, c'era quel vecchio terrore d'esser toccato. Ringhiò più minaccioso, si appiattò più basso, eppure quella mano continuava a discendere. Non voleva mordere quella mano, e sopportò il pericolo che rappresentava finché l'istinto si scatenò travolgendolo col suo insaziabile anelito alla vita.
Weldon Scott aveva sempre creduto di essere abbastanza svelto per evitare qualunque morzo o zannata, ma non conosceva ancora l'eccezionale rapidità di Zanna Bianca, il quale colpì con la fulminea rapidità del serpe.
Friday, 22 January 2010
giudicare
Non c'è casa e non c'è mondo, non ci sono offesa, sfregio, incanto.
Non c'è il dovere di dire "e tutto ciò è buono", né di dire "e tutto ciò è disgustoso", perché non c'è qualcuno separato dal tutto che lo possa dire.
E parlo di "dovere" perché anche questo fa parte dell'illusione: siamo buoni, giusti, conformi a ciò che si deve essere perché giudichiamo, prendiamo le misure della legge e diciamo "tutto questo è buono", o il suo contrario.
No.
Non è che siamo troppo piccoli, insignificanti o indegni per poter giudicare (a meno che non lo facciamo in nome di un Dio). E' che per giudicare bisogna chiamarsi fuori, e noi non siamo fuori, siamo parte - labilmente, transitoriamente e illusoriamente distinta dal tutto che ci attraversa. Chiamarcene fuori e giudicare è la madre di tutte le illusioni, e l’incanto e lo sfregio si alternano perché figli di questa stessa illusione. La Volkommenheit è al di là della colpa perché è al di là dell'accusa e del giudizio, e in questo è felicità e godimento: essere senza separazione e giudizio parte del tutto.
E lo so quali sono la tua domanda e la tua obiezione: certo, ma allora, in questa prospettiva, bene e male non ci sono, eppure noi sentiamo e sappiamo, con assoluta certezza, che le leggi assassine e razziste sull’immigrazione lo sono, ad esempio. Negando la capacità di giudicare, di dire il bene e dire il male, neghi anche questa verità immediata della coscienza.
Ma questa verità immediata della coscienza è, io credo, proprio la percezione del nostro essere parte, la certezza assoluta con cui sentiamo che nessuno si salva o si libera da solo, perché l’esistenza, lo sviluppo, la libertà di ogni essere sono la nostra – non per una nostra sovrana decisione e scelta, ma perché, semplicemente e solidamente, lo sono.
Auschwitz, o nel nostro piccolo le politiche sull’immigrazione, o il potere del sopravvivente, o l’uomo a una dimensione, o anche banalmente le trasmissioni televisive in cui si afferma e si riafferma che l’essere umano è in vendita, e vale di più quello che ha il prezzo più alto – tutte queste cose sono male perché distruggono, strappano, seppelliscono quel che gli umani possono essere.
Forse quando smetteremo di chiedere conto di Auschwitz a un Dio, e cominceremo a pensarlo come un male che gli esseri umani fanno agli esseri umani, si comincerà finalmente a ragionare.
No. Se io sono te e tu sei me quando siamo in vita, lo siamo anche da morti: non c’è nessun essere che seppellisce, ci sono mutazioni, forme e possibilità di essere nuove e diverse che passano e ci attraversano, e si sviluppano, e non si danno le une senza le altre. Queste mutazioni, forme, possibilità attraversano questo corpo e questa storia che mi fanno dire “io” quando questo corpo e questa storia esistono, e ne attraverseranno altri quando questo corpo e questa storia non esisteranno più. Non è il veicolo l’importante.
Ma soprattutto: no, non è tutto uguale. Non è l’essere che nella sua totalità seppellisce quello che gli umani sono e possono essere.
Non è tutto uguale. Ci sono il bene, la pienezza, la maturità “di quando cosa ch'è felice cade”, e c’è il male di quando l’esistenza, lo sviluppo e la libertà della cosa vengono recisi, impediti, immobilizzati (e per noi umani siamo soprattutto noi umani a farlo).
C’è questa particolare possibilità di essere, questa declinazione, sfumatura, orientamento distinto che non è, rispetto al tutto, più di una sfumatura, ma è ciò che, al di là del mio corpo o della mia storia, mi fa dire “io”, e che può, o può non, giungere a pienezza di sviluppo, felicità, maturazione, e poi lasciar posto all’esplorazione di altre possibilità. In questo “può”, o “può non”, tutto si gioca per me, e si gioca insieme ai miei simili, necessariamente e non per scelta - perché tagliata fuori dai loro pensieri e dalle loro azioni, da "l'essere che viene al mondo attraverso la complicità degli uomini tra loro" neanch'io posso pensare, fare, essere nulla.
E c'è il rischio che questa particolare possibilità che sono io venga invece limitata tanto da non poter giungere ad alcuna pienezza, ristretta, chiusa, immobilizzata, o anche cancellata. Ma questa chiusura e immobilità non sono necessariamente nella morte, anzi, possono essere anche nel suo rifiuto e nelle conseguenze che esso comporta – come vedi nel potente, in molte forme di religione, nella paura, nell'identità, ...
Il male esiste, ma non è l’essere stesso: è il fatto, presente in esso, che le possibilità possono essere distrutte, chiuse, strappate, immobilizzate.
Ma l’essere non è Dio, non è qualcuno a cui chiedere conto di questo fatto: è, semplicemente, e contiene anche questo fatto. E’ proprio per questo che, senza poterne chiedere conto a Dio, siamo tanto più obbligati ad avere cura di quello che cresce e a combattere il male.
Und wir, die an steigendes Glück
denken, empfänden die Rührung,
die uns beinah bestürzt,
wenn ein Glückliches fällt.
Non c'è il dovere di dire "e tutto ciò è buono", né di dire "e tutto ciò è disgustoso", perché non c'è qualcuno separato dal tutto che lo possa dire.
E parlo di "dovere" perché anche questo fa parte dell'illusione: siamo buoni, giusti, conformi a ciò che si deve essere perché giudichiamo, prendiamo le misure della legge e diciamo "tutto questo è buono", o il suo contrario.
No.
Non è che siamo troppo piccoli, insignificanti o indegni per poter giudicare (a meno che non lo facciamo in nome di un Dio). E' che per giudicare bisogna chiamarsi fuori, e noi non siamo fuori, siamo parte - labilmente, transitoriamente e illusoriamente distinta dal tutto che ci attraversa. Chiamarcene fuori e giudicare è la madre di tutte le illusioni, e l’incanto e lo sfregio si alternano perché figli di questa stessa illusione. La Volkommenheit è al di là della colpa perché è al di là dell'accusa e del giudizio, e in questo è felicità e godimento: essere senza separazione e giudizio parte del tutto.
E lo so quali sono la tua domanda e la tua obiezione: certo, ma allora, in questa prospettiva, bene e male non ci sono, eppure noi sentiamo e sappiamo, con assoluta certezza, che le leggi assassine e razziste sull’immigrazione lo sono, ad esempio. Negando la capacità di giudicare, di dire il bene e dire il male, neghi anche questa verità immediata della coscienza.
Ma questa verità immediata della coscienza è, io credo, proprio la percezione del nostro essere parte, la certezza assoluta con cui sentiamo che nessuno si salva o si libera da solo, perché l’esistenza, lo sviluppo, la libertà di ogni essere sono la nostra – non per una nostra sovrana decisione e scelta, ma perché, semplicemente e solidamente, lo sono.
Auschwitz, o nel nostro piccolo le politiche sull’immigrazione, o il potere del sopravvivente, o l’uomo a una dimensione, o anche banalmente le trasmissioni televisive in cui si afferma e si riafferma che l’essere umano è in vendita, e vale di più quello che ha il prezzo più alto – tutte queste cose sono male perché distruggono, strappano, seppelliscono quel che gli umani possono essere.
Forse quando smetteremo di chiedere conto di Auschwitz a un Dio, e cominceremo a pensarlo come un male che gli esseri umani fanno agli esseri umani, si comincerà finalmente a ragionare.
No. Se io sono te e tu sei me quando siamo in vita, lo siamo anche da morti: non c’è nessun essere che seppellisce, ci sono mutazioni, forme e possibilità di essere nuove e diverse che passano e ci attraversano, e si sviluppano, e non si danno le une senza le altre. Queste mutazioni, forme, possibilità attraversano questo corpo e questa storia che mi fanno dire “io” quando questo corpo e questa storia esistono, e ne attraverseranno altri quando questo corpo e questa storia non esisteranno più. Non è il veicolo l’importante.
Ma soprattutto: no, non è tutto uguale. Non è l’essere che nella sua totalità seppellisce quello che gli umani sono e possono essere.
Non è tutto uguale. Ci sono il bene, la pienezza, la maturità “di quando cosa ch'è felice cade”, e c’è il male di quando l’esistenza, lo sviluppo e la libertà della cosa vengono recisi, impediti, immobilizzati (e per noi umani siamo soprattutto noi umani a farlo).
C’è questa particolare possibilità di essere, questa declinazione, sfumatura, orientamento distinto che non è, rispetto al tutto, più di una sfumatura, ma è ciò che, al di là del mio corpo o della mia storia, mi fa dire “io”, e che può, o può non, giungere a pienezza di sviluppo, felicità, maturazione, e poi lasciar posto all’esplorazione di altre possibilità. In questo “può”, o “può non”, tutto si gioca per me, e si gioca insieme ai miei simili, necessariamente e non per scelta - perché tagliata fuori dai loro pensieri e dalle loro azioni, da "l'essere che viene al mondo attraverso la complicità degli uomini tra loro" neanch'io posso pensare, fare, essere nulla.
E c'è il rischio che questa particolare possibilità che sono io venga invece limitata tanto da non poter giungere ad alcuna pienezza, ristretta, chiusa, immobilizzata, o anche cancellata. Ma questa chiusura e immobilità non sono necessariamente nella morte, anzi, possono essere anche nel suo rifiuto e nelle conseguenze che esso comporta – come vedi nel potente, in molte forme di religione, nella paura, nell'identità, ...
Il male esiste, ma non è l’essere stesso: è il fatto, presente in esso, che le possibilità possono essere distrutte, chiuse, strappate, immobilizzate.
Ma l’essere non è Dio, non è qualcuno a cui chiedere conto di questo fatto: è, semplicemente, e contiene anche questo fatto. E’ proprio per questo che, senza poterne chiedere conto a Dio, siamo tanto più obbligati ad avere cura di quello che cresce e a combattere il male.
Und wir, die an steigendes Glück
denken, empfänden die Rührung,
die uns beinah bestürzt,
wenn ein Glückliches fällt.
Thursday, 21 January 2010
La carezza che non c'è
Non voglio rischiare di non ritrovarlo, questo post di Ludò. Me lo copio qui, per metterlo al sicuro (?), ma raccomando caldamente di guardare il suo - per me amatissimo -Taccuino farsi
La carezza che non c’è
Entrò, dunque, la principessa Lazvard* nella stanza del re, così dicendo: “Ti porto il saluto del giorno nascente, mio sultano, signore degli astri di luce che luccicano nei miei occhi felici; signore dei tulipani selvaggi che mi agiti nel cuore e delle mie ciglia tremanti.
Chiudi gli occhi, mio sultano, e lascia che intarsi di azzurri sospiri disegnino il tuo corpo di re sul tuo corpo di re;che la mia carezza di zenzero e di melograno ti sfiori, mio signore, e che tintinnino i miei braccialetti d’argento e brilli per te il bagliore delle mie cavigliere .
Lascia che la mia carezza insolente e ladra ti rubi al tempo, al regno, agli eserciti già schierati nelle pianure e ai cavalli frementi; che ti scippi al nero bagliore dei templi -e ti tenga per sé ” .
Entrò, dunque, la principessa Lazvard nella stanza del re, così dicendo: “Ti porto il saluto della sera che scende, mio sultano, signore dei mie pensieri, di ogni sussurro della mia voce flumina, dei pascoli di erba azzurra da sempre custoditi in me. Lascia che la mia carezza ti percorra come la corsa di una lepre timida, e che si faccia valle, e conca, e culla la mia mano; che possa placare la rabbia del sultano, e consolare la sua tristezza ” .
Sfogliando il nostro vocabolarietto Farsi alla ricerca delle parole più importanti per la sopravvivenza - quelle che sempre si imparano per prime nella studio di una nuova lingua - io volevo cercare “carezza”. Ma questo popolo dalla leggendaria sensualità, distilla emozioni e sentimenti con sapiente raffinatezza e quasi sempre, per una parola che cerco, il vocabolarietto verde mi risponde con due o con tre. Mi sono così imbattuta in due carezze dal diverso nome: per una , نوازش (navazesh), trovo scritto semplicemente “carezza”; per l’altra, ناز (naz), trovo: carezza, civetteria.
Da queste carezze diverse, nascono poi due diversi modi di accarezzare: navazesh kardan, e naz kardan:secondo la mia fantasiosa inerpretazione, la carezza tenera e quella maliziosa; quella che accoglie e quella che gioca: l’una del puttino con le ali di angelo, l’altra dell’ ineffabile mascalzone lanciatore di dardi.
Ma cosa sentiva il sovrano sulla sua guancia, quando, dopo la carezza, si consegnava alla vita di palazzo, e, tra la selva delle colonne d’ alabastro, camminava accerchiato di ministri e visir, nella folla dei contabili e funzionari e portantini e domestici e cortigiane, senza riuscire ad ascoltarli? Cosa sentiva tremare ancora sulla pelle quando, nelle notti trapunte di lapislazzuli, contemplava da solo la perfezione dei giardini? Cosa c’è , dunque, sulla guancia quando non c’è più la mano, che distoglie il sovrano dalle relazioni dei visir, dalle suppliche dei mendicanti, dal salmodiare dei sacerdoti, dal fruscio delle fontane?
La vera carezza io credo sia questa:quest’eco che resta, questo contatto che si avverte ancora quando non c’è più nulla,a cui nemmeno la leggendaria delicatezza dei persiani ha dato un nome.
E, se passa di qui un poeta, e legge questa storia, ascolti la mia preghiera di inventarlo per me.
* Lazvard:che ha il colore del cielo sereno
Ludò
Friday, 15 January 2010
Assassini
Morire nel deserto - di Fabrizio Gatti
"Un filmato mostra la tragica fine degli immigrati espulsi dalla Libia. Così come prevede l'accordo siglato tra Berlusconi e Gheddafi" recita il titolo dell'articolo, ma anche così come è logica conseguenza della cosiddetta "lotta all'immigrazione clandestina" aggiungo io.
Non so se avrò lo stomaco di guardarlo, ma dovremmo esserci costretti tutti, noi italiani-europei, così come alla fine della guerra i cittadini tedeschi vennero costretti a visitare i lager: perché poi nessuno possa dire che non sapeva.
"Un filmato mostra la tragica fine degli immigrati espulsi dalla Libia. Così come prevede l'accordo siglato tra Berlusconi e Gheddafi" recita il titolo dell'articolo, ma anche così come è logica conseguenza della cosiddetta "lotta all'immigrazione clandestina" aggiungo io.
Non so se avrò lo stomaco di guardarlo, ma dovremmo esserci costretti tutti, noi italiani-europei, così come alla fine della guerra i cittadini tedeschi vennero costretti a visitare i lager: perché poi nessuno possa dire che non sapeva.
Sunday, 10 January 2010
Um deinetwillen
Entsinnen ist da nicht genug, es muss
von jenen Augenblicken pures Dasein
auf meinem Grunde sein, ein Niederschlag
der unermesslich überfüllten Lösung.
Denn ich gedenke nicht, das, was ich bin
rührt mich um deinetwillen. Ich erfinde
dich nicht an traurig ausgekühlten Stellen,
von wo du wegkamst; selbst, dass du nicht da bist,
ist warm von dir und wirklicher und mehr
als ein Entbehren. Sehnsucht geht zu oft
ins Ungenaue. Warum soll ich mich
auswerfen, während mir vielleicht dein Einfluss
leicht ist, wie Mondschein einem Platz am Fenster.
Ma ricordare, qui, non è abbastanza: deve
il puro essere di ciascun momento
sul mio fondo restare, deposito
di soluzione immensamente satura.
Poiché io non ti penso, ciò che sono
mi muove in grazia tua. Non ti invento
nei luoghi tristi e privi di calore
da cui tu sei partita: il fatto
che tu non ci sei
è già caldo di te, ed è più vero
più del tuo mancarmi. Perché dovrei
correre fuori, se forse è su di me il tuo influsso
lieve, come raggio di luna alla finestra?
Il tedesco ha quest'espressione poco usata, "um deinetwillen” che da sola vale tutta una lingua: serve a indicare quella costellazione di significati a cui noi faticosamente giriamo intorno dicendo “per te”, “in grazia tua” , “a te”, “for your sake” – letteralmente, credo: “per la forza del tuo essere e volere” (deinet, di te; willen, volere, ma è anche la stessa radice di “vis”, forza, violenza, e di “vita”).
Rilke, per Lou Salomé, ne fa la più forte e alta delle dichiarazioni d'amore, l'unica che abbia un senso e giustifichi questo sentimento egoista, possessivo, stupido e folle. Io, dice Rilke, non penso semplicemente a te: è ciò che sono per te, attraverso te, grazie a te che mi muove, è la tua presenza che sta nel mio fondo e mi consente di essere.
Essere “per”, “in grazia di” qualcun altro, essere mossi da ciò che si è in questo modo, essere ciò che si è più profondamente e intensamente, ma di un essere che è dedicato a qualcuno e non si dà senza di lui; e proprio per questo porre all'altro una nahe Frage, un’intima richiesta: intima perché investe violentemente e profondamente non soltanto te stesso, ma anche l'altro, gli domanda di farsi coinvolgere in un'impresa incomprensibile e rischiosa, che preferiamo farci raccontare o risolvere nelle più sicure consuetudini, "das Schwerste, was uns aufgegeben ist, das Äußerste, die letzte Probe und Prüfung, die Arbeit, für die alle andere Arbeit nur Vorbereitung ist" (il più difficile compito che ci sia imposto, l'estremo, l'ultima prova e testimonianza, il lavoro, per cui ogni altro lavoro è solo preparazione).
von jenen Augenblicken pures Dasein
auf meinem Grunde sein, ein Niederschlag
der unermesslich überfüllten Lösung.
Denn ich gedenke nicht, das, was ich bin
rührt mich um deinetwillen. Ich erfinde
dich nicht an traurig ausgekühlten Stellen,
von wo du wegkamst; selbst, dass du nicht da bist,
ist warm von dir und wirklicher und mehr
als ein Entbehren. Sehnsucht geht zu oft
ins Ungenaue. Warum soll ich mich
auswerfen, während mir vielleicht dein Einfluss
leicht ist, wie Mondschein einem Platz am Fenster.
Ma ricordare, qui, non è abbastanza: deve
il puro essere di ciascun momento
sul mio fondo restare, deposito
di soluzione immensamente satura.
Poiché io non ti penso, ciò che sono
mi muove in grazia tua. Non ti invento
nei luoghi tristi e privi di calore
da cui tu sei partita: il fatto
che tu non ci sei
è già caldo di te, ed è più vero
più del tuo mancarmi. Perché dovrei
correre fuori, se forse è su di me il tuo influsso
lieve, come raggio di luna alla finestra?
Il tedesco ha quest'espressione poco usata, "um deinetwillen” che da sola vale tutta una lingua: serve a indicare quella costellazione di significati a cui noi faticosamente giriamo intorno dicendo “per te”, “in grazia tua” , “a te”, “for your sake” – letteralmente, credo: “per la forza del tuo essere e volere” (deinet, di te; willen, volere, ma è anche la stessa radice di “vis”, forza, violenza, e di “vita”).
Rilke, per Lou Salomé, ne fa la più forte e alta delle dichiarazioni d'amore, l'unica che abbia un senso e giustifichi questo sentimento egoista, possessivo, stupido e folle. Io, dice Rilke, non penso semplicemente a te: è ciò che sono per te, attraverso te, grazie a te che mi muove, è la tua presenza che sta nel mio fondo e mi consente di essere.
Essere “per”, “in grazia di” qualcun altro, essere mossi da ciò che si è in questo modo, essere ciò che si è più profondamente e intensamente, ma di un essere che è dedicato a qualcuno e non si dà senza di lui; e proprio per questo porre all'altro una nahe Frage, un’intima richiesta: intima perché investe violentemente e profondamente non soltanto te stesso, ma anche l'altro, gli domanda di farsi coinvolgere in un'impresa incomprensibile e rischiosa, che preferiamo farci raccontare o risolvere nelle più sicure consuetudini, "das Schwerste, was uns aufgegeben ist, das Äußerste, die letzte Probe und Prüfung, die Arbeit, für die alle andere Arbeit nur Vorbereitung ist" (il più difficile compito che ci sia imposto, l'estremo, l'ultima prova e testimonianza, il lavoro, per cui ogni altro lavoro è solo preparazione).
Wednesday, 6 January 2010
diventa ciò che sei
... con l'ostinazione di uno di quei pupazzi con cui giocavo da piccola, che avevano un peso nella base, e tu potevi lanciarli, scuoterli, colpirli come volevi, e quelli rotolavano e dondolavano ma poi tornavano sempre in piedi, con quel peso che li teneva saldi e dritti nella posizione che era la loro.
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