Wednesday, 30 September 2009

il migliore dei mondi possibili

e apertamente dedicai il cuore alla terra, grave e sofferente. E spesso, nella notte sacra, promisi d'amarla fedelmente, senza paura, col suo greve carico di fatalità. Così, mi avvinsi ad essa di un vincolo mortale (Holderlin, La morte di Empedocle, citato da Camus in exergo a l'uomo in rivolta)

La questione, per me, è in fondo piuttosto semplice, ed è come la mette Camus: l'uomo in rivolta si rivolta in nome di qualcosa, riconosce l'esistenza di un "se noi non siamo, io non sono" e per affermarlo è disposto ad andare anche all'inferno. Afferma una radicale solidarietà con l'essere, se ne proclama parte che non solo non può, ma non vuole e non deve chiamarsene fuori. Io non ho un altrove dove collocare il bene, nulla in nome di cui condannare la vita e il mondo.

Questo non vuol dire che non mi rivolti, o che non riconosca come tali il dolore, la sofferenza, il semplice disagio, o che io tolleri l'assenza degli scomparsi. Ma credo che sia più onesto stare con la sofferenza, quando e dove c'è, riconoscerla come tale, senza farne la cifra del mondo e senza condannare in suo nome tutto ciò della cui perdita, o mancanza, o distruzione io soffro. Ci sono alcune frasi che ho preso come imperativi per me, e una è "ci vuole forza d'amore, e coraggio" - ancora del retoricissimo Camus.

Tuesday, 29 September 2009

Eli, Eli, lama sabachtani

Forse, chissà, lo sguardo feroce della belva occidentale cristiana viene proprio da questo: dall'immagine del Cristo in croce, e dalla redenzione - o dalla sua ricerca. Dal pensiero che esista una possibile redenzione del male, che l'infranto possa essere ricomposto. Che si possa assumere su di sé il male del mondo, come fece l'uomo che soffrì sulla croce. Che si possa, e si debba, imitare Cristo - non il Cristo re, ma proprio il Cristo uomo di "Eli, eli, lama sabachtani".

Chi assume su di sè la sofferenza dell'uomo in croce in qualche modo è già assolto, si è collocato dalla parte del dolore e della vittima, come dice Canetti - ma anche, e forse soprattutto, si colloca in un mondo dove esiste una remissione del peccato, dove c'è un dio a cui chiedere conto, ma anche espiazione e redenzione del male.

Un coraggioso stare nel mondo, allora, sarebbe proprio il contrario: non credere di poter assumere su di sé il male, non credere che esista una possibile redenzione, e rinunciare anche alla superstizione o al pensiero magico di avere un dio a cui chiedere conto o perdono. E al contrario assumere fino in fondo su di sè il peso di questo: che non c'è alcun modo di rimediare al male, una volta che è; che non c'è remissione, ma cause e conseguenze; che il pentimento o la penitenza aggiungono solo male al male, ma non redimono proprio nulla.
(nessun nume, o altro, ma soltanto un invidioso ...)

perfezione

Mia figlia che ride e salta sventolando il suo novello diploma da piccolo vigile del fuoco, o che strilla tuffandosi sotto i cavalloni. La guardo, e penso: vale la pena che al mondo ci sia la morte, per permettere di esistere a cose così.

E poi penso: perché un bambino che ride (non necessariamente mia figlia) mi dà un senso di felicità così assoluta? Credo che sia perché quando un bambino è felice vedo la sua assoluta perfezione qui ed ora, percepisco che un bambino è perfetto in ogni momento, è sempre esattamente quello che deve essere.

Di questa perfezione fa parte anche il cambiamento, certo, il fatto che Laura in questo stesso momento sta crescendo, e diventerà un'altra, e già non è più la tenera trottolina impacciata che non capiva esattamente cosa farsene del mare. Ma se penso a queste cose, o forse se do' peso a queste cose, smetto di vederla - di vedere quel che è nella sua completa perfezione di questo momento.

Penso, allora: se non avessimo i ricordi, in ogni momento saremmo interi e perfetti.

Laura stessa ricorda, e rimpiange quando era più piccola, e - temo - si preoccupa di non diventare abbastanza. Cerco di levarle queste idee, ma ovviamente non posso: il cammino per liberarsi dei ricordi, a quanto pare, è lungo e difficile.

Saturday, 26 September 2009

Religioni del lamento

Il volto della terra è segnato dalle religioni del lamento. Nel cristianesimo esse hanno raggiunto un tipo di validità generale. La muta che è loro veicolo ha solo breve durata. Cosa conferisce consistenza alle forme di fede da cui scaturisce il lamento? Cosa attribuisce loro continuità attraverso i millenni?
La leggenda sulla quale esse si formano narra di un uomo o di un Dio morto ingiustamente. E' sempre la storia di un inseguimento, si tratti di una caccia o di una persecuzione; può esservi collegato anche un processo ingiusto
(...)
La caccia o l'inseguimento sono narrati in tutti i particolari: si tratta di una storia precisa, nettamente personalizzata; sempre scorre il sangue, anche nella più umana delle Passioni: il Cristo stesso versa il suo sangue. (...) La caccia o la persecuzione, però, sono sempre intese dal punto di vista della vittima.
Al termine della caccia si forma una muta del lamento, il cui lamento possiede una nota particolare: il morto è stato ucciso per amore degli uomini che lo piangono. (...) I piangenti non accettano la sua morte, vogliono riaverlo in vita.
(...)
Perché un numero così grande di persone partecipa al lamento? In che cosa consiste la sua forza di attrazione? Che cosa offre agli uomini? In tutti coloro che vi partecipano si compie il medesimo processo: la muta di caccia o la muta dei persecutori si purifica trasformandosi in muta del lamento. Gli uomini hanno vissuto come inseguitori, e sempre più come inseguitori essi continuano a vivere. Essi cercano carne di altri, la straziano, e si nutrono del tormento delle creature deboli. Nei loro occhi si specchia lo sguardo straziante della vittima; l'ultimo grido, di cui si dilettano, si incide incancellabilmente nella loro anima. Forse la maggior parte di essi non si rende conto di nutrire insieme con il proprio corpo anche l'oscurità dentro di sé. Ma colpa e angoscia crescono inarrestabili in loro, senza lasciare speranza di redenzione. Così gli uomini si uniscono a chi muore per loro, e nel lamento su di lui si sentono essi stessi inseguiti e perseguitati. In quel momento, nonostante tutte le loro azioni passate, tutta la loro ferocia, essi si collocano dalla parte del dolore. E' uno scambio delle parti improvviso e di ampia portata, che li libera dall'accumulo di colpe delle uccisioni trascorse e dall'angoscia di essere essi stessi afferrati dalla morte. Un altro prende su di sé tutto ciò che essi fecero agli altri: seguendolo fedelmente e senza riserve, essi sperano di sfuggire alla vendetta.
Le religioni del lamento sono dunque indispensabili per l'equilibrio delle anime degli uomini, fin tanto che gli uomini non rinunciano all'uccidere in muta.


Elias Canetti, Massa e potere (Muta e religione: Religioni del lamento) Adelphi 1981, pp. 173 ss.
(corsivi dell'autore, grassetti miei).

Missione di pace

Ascolto


ti ascolto come ascolterei un pioppo
ti guardo attenta, e ti vengo a cercare
ogni giorno.

Seduta ai tuoi piedi, ascolto
ascolto come ascolterei la luce
ascolto con la pelle e con lo sguardo.

Sono, in quell'aria che da te respira
sono, in quell'ascoltare le tue foglie
guardandole dal basso, e in mezzo ai rami
il cielo.

Tuesday, 22 September 2009

Dérèglement

" Quando parlo di religione secolarizzata penso soprattutto a Bonhoeffer. Il quale sosteneva che la secolarizzazione - che tanto spaventa Ratzinger e la chiesa post-conciliare - rappresenta un’occasione storica per il cristianesimo: l’occasione di liberarsi dalla religione e dal suo Dio tappabuchi per realizare pienamente la fede. La religione si alimenta della debolezza dell’uomo, cerca di rassicurarlo, anche apologeticamente si appoggia alla sofferenza, alla malattia, alla morte, per proporre le sue “ipotesi di lavoro”. La fede fa a meno della rassicurazione, crede in un Cristo crocifisso e debole, che non può aiutare, che condivide la sofferenza, ma non salva dal male. Questa è la fede cristiana in quella che Bonhoeffer considera l’ “erà adulta” del mondo - ed è una fede che sono portato ad accostare all’idea assolutamente laica, ed altissima, della persuasione di Carlo Michelstaedter, quel coraggioso stare nel mondo senza più appoggi, rassicurazioni, consolazioni.
Penso che ci sia un viaggio da compiere, un viaggio difficile, anche doloroso: il viaggio oltre sé stessi. Rendersi la vita impossibile, e provare così tuttavia a vivere, può essere un buon modo di intraprendere questo viaggio - o forse anche, sì, par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens. Invertendo i termini di Bonhoeffer, chiamo ciò religione - perché lega il sé a qualcos’altro, fino a schiantarlo in esso -, mentre la fede mi sembra lusinga dell’io, un additivo che, volendo preservare la vita, la corrompe.
Certo, mi rendo conto di semplificare. La fede non ha solo un messaggio per l’individuo, ma è anche costruttrice di collettività, e possono essere collettività feroci o compassionevoli, barbariche o raffinate. C’è, come dici, “quello che fa alle persone”. Il mio rifiuto del cattolicesimo è prevalentemente un rifiuto estetico. E’ il rifiuto di una religione degli occhi torti al cielo, delle spade nel cuore, delle processioni dolenti, dei canti deprimenti, dell’esteriorità ostentata fino al ridicolo. Etico, poi. Duemila anni di cristianesimo non sono riusciti ad ammansire la belva occidentale, che ha ancora lo sguardo feroce - e quando prova a dire parole dolci la sua voce suona terribilmente falsa, affettata. Duemila e cinquecento anni di buddhismo hanno lasciato invece sul viso della gente quel “sorriso doloroso e delicatissimo” di cui parla Pietro Citati a proposito di un portiere dello Sri Lanka in un suo memorabile articolo:*

A nessuno, neppure al più odioso inquilino, nega il proprio sorriso. Non è mai servile. Dal suo uomo-dio, e dagli innumerevoli Bodhisattva, che hanno passeggiato in Oriente, ha appreso che la virtù suprema è la compassione – questo cuore della gentilezza. Con la compassione si placano le anime, si risolvono le difficoltà, si diffonde la quiete, si rallegrano i cuori, si permette all’universo di procedere in una nube di incenso e di miele. L’anno scorso ha innalzato nel nostro portone un piccolo albero di Natale, con tutte le candele, le luci e i piccoli doni: una specie di ex-voto agli dèi cattolici della casa e della città. L’albero era stento, storto e goffo. Allora lui si è scusato col suo grande sorriso doloroso, e ci ha detto: “Scusatemi, io non so farlo bene, sono buddhista”. Mai albero di Natale – non certo quelli immensi innalzati negli Stati Uniti o in piazza San Pietro – ha fatto tanto per la quiete dei nostri cuori.


Probabilmente non sarebbe stata possibile questa impresa - imprimere quel sorriso sul volto di milioni di persone - senza i racconti, le immagini, i suoni di cui parli. Sono consapevole della forza del fantastico, delle numerose vie attraverso le quali una religione giunge a parlare ad un popolo. Ma so anche che esso ha molti rischi. Il principale è, appunto, quella della riduzione della religione a strumento di consolazione, la fine del viaggio oltre sé stessi. Ciò avviene anche nel buddhismo. Scrive ad esempio Melford E. Spiro a proposito del buddhismo theravada birmano (ma le sue osservazioni valgono in generale per i paesi di tradizione theravada):

Tipicamente, invece che a rinunciare al desiderio (e al mondo), i buddhisti aspirano ad una futura esistenza mondana in cui tale desiderio possa trovare soddisfazione. Al contrario del buddhismo nirvanico, che afferma che la frustrazione è una caratteristica dell’esistenza samsarica, essi considerano la loro sofferenza uno stato temporaneo, il risultato della loro posizione attuale nel samsara. Ma vi sono altre forme di esistenza samsarica che producono grande piacere, e che loro sperano di raggiungere.**


A livello popolare, il buddhismo theravada non è dunque troppo diverso dal cattolicesimo: entrambi promettono una seconda vita felice, se ci si comporta in un certo modo in questa.
La religione di cui parlo sfugge a queste riduzioni, anche perché non si lascia toccare dal fantastico e dalla narrazione. Mi affascinano le grandi raffigurazioni dei templi, i miti, le storie sacre, ma più di tutto amo la sublime castità di linguaggio dei mistici, che costeggia il silenzio - e l’indicibile.

* Grazie a Ludò.
** M. E. Sapiro, Buddhism and society. A great tradition and its burmese vicissitudes, University of California, Berkeley-Los Angeles 1982, p. 67."
"Antonio Vigilante