Tuesday, 30 June 2009

la misericordia

Oh the sisters of mercy, they are not departed or gone.
They were waiting for me when I thought that I just can't go on.
And they brought me their comfort and later they brought me this song.
Oh I hope you run into them, you who've been travelling so long.

Yes you who must leave everything that you cannot control.
It begins with your family, but soon it comes around to your soul.
Well I've been where you're hanging, I think I can see how you're pinned:
When you're not feeling holy, your loneliness says that you've sinned.

Well they lay down beside me, I made my confession to them.
They touched both my eyes and I touched the dew on their hem.
If your life is a leaf that the seasons tear off and condemn
they will bind you with love that is graceful and green as a stem.

When I left they were sleeping, I hope you run into them soon.
Don't turn on the lights, you can read their address by the moon.
And you won't make me jealous if I hear that they sweetened your night:
We weren't lovers like that and besides it would still be all right,
We weren't lovers like that and besides it would still be all right.

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Sisters of Mercy è una grande poesia pagana.

Parla di un amore leggero e senza possesso, le sorelle di misericordia che sono lì, ti aspettano quando ne hai bisogno e non se ne hanno a male se te ne vai via quando sono ancora addormentate.

Parla dell'ossessione di controllare, dire sì oppure no, dire il bene ed il male, e di giudicare e tagliar via tutto ciò che non può stare dentro questo controllo: cominci a tagliar via la tua famiglia, e presto la durezza e la solitudine ti arrivano al cuore, ti trovi appeso come un cristo in croce, e quando capisci di non essere un santo cadi sotto i colpi del tuo stesso giudizio: la tua solitudine, il bisogno di stabilire il bene e tagliar via il male ti suggerisce che hai peccato, che sei tu stesso dannato, non abbastanza buono da non dover essere anche tu strappato via come una foglia.

Parla di donne che sono tronco, radici, rami, e che possono sciogliere questa condanna e annodare alla vita.

E accenna anche, con le allusioni alla crocifissione e a (Maria) piena di grazia al fatto che questa maledizione e il bisogno di condannare nascono da una religione alienante che rifiuta il potere sacro, impuro e terrificante del sesso e della nascita che implica la morte (e che non a caso ha innanzitutto paura della donna, e la considera impura). Dice che l'assoluzione da questo peccato, dalla maledizione che è il giudicare, condannare, dire no, e che implica condannare se stessi e scordare sempre il perdono, la fine di questa maledizione viene dall'amore leggero e senza possesso delle Sisters of Mercy, che abitano presso la luna.

E dice, infine: non ricadere nel bisogno di controllarlo. Non è un amore che renda gelosi, non è quel genere di amore - e peraltro, andrebbe bene lo stesso.

Wednesday, 17 June 2009

L'Aquila e la shock economy

"Katrina era una tragedia ma, come scrisse Milton Friedman nel suo editoriale sul Wall Street Journal", era "anche un'opportunità". (...) "Nel giro di poche settimane, la costa americana del Golfo del messico divenne un laboratorio nazionale per lo stesso tipo di "governo gestito dagli appaltatori" che era stato introdotto in Iraq. (...). Come in Iraq, anche stavolta il governo svolse il ruolo di bancomat, adibito a depositi e prelievi. Le aziende ritiravano fondi attraverso enormi contratti, e poi ripagavano il governo non svolgendo bene il proprio lavoro, ma versando contributi alla campagna elettorale e/o fornendo leali truppe per le prossime elezioni" (...) "Tra le scuole, le case, gli ospedali, i trasporti e la carenza d'acqua pulita in molti quartieri, la sfera pubblica di New Orleans non stava subendo nuna ricostruzione ma una cancellazione, con il pretesto dell'uragano".
Naomi Klein, Shock economy, RCS 2007, pp. 468-474

Shock economy è un libro di Naomi Klein uscito nel 2007, che fornisce strumenti molto convincenti per leggere quanto sta accadendo a l'Aquila.

La tesi del libro è che esista un "capitalismo dei disastri" che utilizza le teorie sviluppate negli anni '70 sull'elettroshock come strumento per fare tabula rasa delle personalità "disturbate" e costruire su questa tabula rasa personalità "adattate". In analogia con l'elettroshock, il "capitalismo dei disastri" utilizza le situazioni di shock create con le torture o le guerre, come ad esempio in Cile o in Iraq, o determinate da disastri naturali come lo tsunami in Sri Lanka o l'uragano a New Orleans - o il terremoto a l'Aquila - e la tabula rasa (sia materiale che relativa alla incapacità di reazione della popolazione) che producono per realizzare zone franche in cui instaurare un affarismo di pura rapina.

La caratteristica di queste zone franche, o "zone rosse", sono la militarizzazione del territorio giustificato dall'emergenza, la gestione attraverso servizi privati remunerati con appalti pubblici, l'azzeramento fin dove possibile dei servizi, delle sicurezze e delle infrastruttture pubbliche, la totale sottrazione delle decisioni e anche della possibilità di agire dalle mani della popolazione locale, che è essa stessa sottoposta a un controllo militare giustificato con l'emergenza, trattata come vittima da "difendere" quando non come criminale (gli "sciacalli" di New Orleans) o come nemico (Iraq).

Sunday, 14 June 2009

Solitudine

Sorprendente, Rilke. "Essere capaci di solitudine", scrivevo più o meno un mese fa qui. Ma che la solitudine potesse essere qualcosa da ampliare "su vasto paese", e che questo fosse compito, non l'avevo proprio pensato né immaginato.
Compito. Mi piace quel che ne dice Rilke. Mi dà una ragione - un riconoscimento, diciamolo! - di come nella mia vita ho affrontato a testa bassa le cose, non riconoscendo come compagno nessuno che non volesse affrontarle come me, con altrettanta pertinacia.
Ma la solitudine non era compito: era conseguenza, faticosa e dolorosa, da accettare, perché non era possibile un programma minore. Qui è qualcosa di diverso: non esattamente compito, forse, ma difficile a cui tenersi, condizione da coltivare, dalla quale non si deve uscire, ma invece fare che la voglia di uscirne serva a renderla più ampia. Forse sorgente ('come la natura, in sé colma, a se stessa affaccendata (come una fontana)').
Non me lo aspettavo, e ci devo pensare.
Intanto, cos'è che Rilke chiama solitudine (Einsamkeit)? ricorda il "diventa ciò che sei", o l'essere "causa adeguata". "Tenta di essere se stessa" lo dicevamo a 15 anni, ed è banale e non lo è - no, Rilke rimanda a qualcos'altro, qui, che ha lo stesso nome e ci somiglia.

"E non dovete lasciarvi sviare nella vostra solitudine perché qualcosa dentro di voi desidera uscirne. Appunto questo desiderio, se l'userete in modo calmo e ponderato e come uno strumento, vi aiuterà ad ampliare la vostra solitudine su vasto paese. La gente (con l'aiuto di convenzioni) ha dissoluto tutto in facilità e della facilità nella più facile china; ma è chiaro che noi ci dobbiamo tenere al difficile; ogni cosa vivente ci si tiene, tutto nella natura cresce e si difende alla sua maniera ed è una cosa distinta per sua virtù dall'interno, tenta di essere se stessa ad ogni costo e contro ogni resistenza. Poco noi sappiamo, ma che ci dobbiamo tenere al difficile è una certezza che non ci abbandonerà; è bene essere soli perché la solitudine è difficile; che alcuna cosa sia difficile dev'essere una ragione di più per attuarla".

"Anche amare è bene: ché l'amore è difficile. Voler bene da uomo a uomo: questo è forse il più difficile compito che ci sia imposto, l'estremo, l'ultima prova e testimonianza, il lavoro, per cui ogni altro lavoro è solo preparazione."

"Chi consideri seriamente trova che - come per la morte, che è difficile - anche per il difficile amore ancora non è stato riconosciuto alcun chiarimento, alcuna soluzione, né cenno né via; e non si potrà ricercare, per questi compiti che noi portiamo velati e consegniamo oltre ad altri senz'aprirli, alcuna regola comune, che riposi su accordi generali. Ma nella stessa misura in cui noi cominciamo a tentare come singoli la vita, verranno incontro a noi, i singoli, queste grandi cose, via via più vicine. Le istanze, che il difficile lavoro dell'amore pone al nostro sviluppo, sono grandi oltre la vita, e noi non siamo, come principianti, ancora alla loro altezza. Ma se noi persistiamo e prendiamo su noi questo amore come peso e noviziato, invece di perderci a tutto il gioco facile e spensierato dietro cui gli uomini si sono nascosti in faccia alla più grave gravità della loro esistenza, forse sarà sensibile un piccolo progresso e un piccolo alleggerimento a quelli che verranno molto dopo di noi; e sarebbe molto.
Noi giungiamo appunto solo ora a considerare la relazione di una singola creatura umana con una seconda singola creatura senza pregiudizi e obiettivamente, e i nostri tentativi di vivere una simile relazione non hanno alcun modello avanti a sé."


Rilke, lettere a un giovane poeta, Roma, 14 maggio 1904, trad. Leone Traverso, adelphi 1989, p.48, pp. 51-52.

http://www.rilke.de/briefe/140504.htm
http://www.astro-sophia.de/Seiten/PDF/rilke%20briefe.pdf

Saturday, 13 June 2009

neutralità

essere neutri è una indubbia scelta
e anche rigorosa
ha un'etica importante, assomiglia
a un elastico cemento che non muore
ma non ti lascia vivere o finire
a un asfalto colloso e prepotente
sul quale tuttavia può gocciare
un sangue appiccicoso e casuale.

...

E' sorte di tutti, è indifferenza
della ginestra che cresce sulla lava
ma, in proporzioni minime annunciando
fine di un mondo, e non c'è stato il fungo
sparato sopra il murmure del sole
ma soltanto biologico innescarsi
della propensione a dismorire.

Francesco Piero Franchi, 1978

Sunday, 7 June 2009

la débacle

La débacle della sinistra si misura nelle piccole cose, automatiche e inconsapevoli, come l'articolo di repubblica che il 26 maggio racconta in cronaca locale della pubblica esecuzione, a Napoli, di un suonatore di fisarmonica.

Un atto di terrorismo da esecrare e ricordare annualmente, se si fosse trattato di un economista modenese. Visto che non era un economista modenese, ma un suonatore di fisarmonica, probabile abitante di roulotte, sicuramente non italiano, la sua morte e il dolore della sua compagna sono menzionati distrattamente. L'articolo racconta la sola cosa veramente importante: un ragazzo di 14 anni, rimasto ferito, avrebbe potuto morire "senza" una ragione.
Sappiamo tutti perfettamente, infatti, che i suonatori ambulanti, gli stranieri, e gli zingari soprattutto, muoiono sempre "con" una ragione.

E' questa, la débacle.

http://www.nazioneindiana.com/2009/05/29/cinque-minuti-di-napoli/
http://www.nazioneindiana.com/2009/06/17/qui-non-lo-lascio/
http://www.nazioneindiana.com/2009/06/17/banalita-del-male/

(e per fortuna che c'è nazione indiana!)

Thursday, 14 May 2009

Natura

"E i sagaci animali lo notano che, di casa nel mondo interpretato
non diamo affidamento"

Chi ha mai osservato i sagaci animali con qualche attenzione può forse dubitare che anche il loro non sia un mondo interpretato. Ma ci piace immaginarli così, quando vogliamo figurarci una natura, un umano puro, contenuto. Quando vogliamo immaginarci una contenutezza e una purezza che non troviamo da nessuna parte.
E così, ci figuriamo che gli animali non si rappresentino, non cerchino riconoscimento. Mangiare, bere, conservare le forze è tutto quello che fanno, tutto quello che dovremmo fare anche noi. Il resto è superbia, tumore narcisistico, rappresentazione.
Guardiamo agli animali quando cerchiamo un non essere, qualcosa che manchi di quello che vogliamo raccontarci come un di più. Lo facevamo, lo facciamo ancora, pure con gli esseri umani, quando ci raccontiamo la favola dei selvaggi o dei semplici, non toccati dagli orpelli della civiltà, dagli idoli del teatro. Ah, questo popoloso deserto che è Parigi! Lo fece anche Rousseau con gli Italiani, selvaggi dalla lingua tanto musicale, così vicini alla purezza e all’autenticità dei sentimenti, così lontani dal formalismo teatrale della lingua francese e della civilisation …
Ma noi siamo di casa nel mondo interpretato esattamente come gli animali, e come loro ci rispecchiamo negli altri. Quel che diceva Danilo Dolci, “ciascuno cresce solo se sognato”, non è vero soltanto dei bambini.
Certo, si deve poter esser soli, è essenziale essere capaci di solitudine, e anche saper essere causa di se stessi, che le proprie azioni ed espressioni sorgano quanto più possibile dal fondo, qualunque cosa sia questo fondo.
Ma per crescere, per essere capaci di metamorfosi, per essere con più forza quello che sorge dal fondo abbiamo bisogno di essere sognati, di rispecchiarci. Abbiamo bisogno degli altri e delle corrispondenze, delle consonanze, degli accordi che si creano fra ciò che sorge da noi e da loro.
Se è così, la questione non è rinunciare a rappresentarsi, ma in quale misura la maschera, la persona, il volto raffigurano ciò che è più puro e necessario, una certa quale felicità e pienezza che ha bisogno di uscir fuori e di rispecchiarsi in altri per raggiungere un grado maggiore di essere, pienezza, felicità.

Tuesday, 12 May 2009

Parole chiave: cittadinanza

Mi sono presa un'arrabbiatura, l'altro giorno, e ho scritto, senza mezzi termini, che lo slogan "sicurezza, un diritto di tutti i cittadini" mi faceva schifo. Pochi hanno capito cosa ci fosse da arrabbiarsi, un'amica mi ha scritto, più o meno: cittadino, citoyen, mi pare che sia una bella parola, cosa c'è che non va?

Sì, cittadino è un bellissimo nome: chiama la libertà, perché l'aria della città rende liberi, e per di più libertà "di", la libertà attiva del cittadino, chiama l'uguaglianza e la fratellanza, perché ricorda come si chiamavano l'un l'altro i citoyens della Rivoluzione francese. Chiama, soprattutto, i diritti di cittadinanza: quelli che in democrazia ha il cittadino che ha diritto di partecipare a stabilire le leggi a cui è sottoposto e l'uso delle risorse a cui contribuisce pagando le tasse secondo le sue possibilità. Chiama i diritti che non ha chiunque al mondo, ma solo chi è cittadino di quello stato, parte riconosciuta della comunità che è sottoposta a quelle leggi e paga quelle tasse (e specifico: riconosciuta: perché la cittadinanza si concede, e gli immigrati non ce l'hanno, anche se sono soggetti alle nostre leggi e pagano tasse e contributi per la nostra comunità).

Ma cosa succede quando la sicurezza, la libertà dalla paura, non è semplicemente un diritto di tutti ma si sente il bisogno di specificare: di tutti "i cittadini"?

Succede semplicemente che, visto che non qualunque persona è un cittadino di questo particolare Stato, la sicurezza, la libertà dalla paura, diventa un diritto che abbiamo noi cittadini e soltanto noi, proprio come il posto a sedere in autobus.
Succede, se non sono stata abbastanza chiara, che il diritto alla libertà dalla paura, a vivere e ad esistere, non è più di tutti. Succede che sono i cittadini ad avere questo diritto, dunque gli altri, quelli che non sono cittadini, non ce l'hanno.
E' una dichiarazione di guerra.

Questo un politico lo sa e lo deve sapere, e a maggior ragione lo sa e lo deve sapere un partito che si chiama democratico - e perfavore, nessuno si copra con la foglia di fico dei "nuovi cittadini": la cittadinanza è una cosa seria.