"Certo che il capitalismo è depauperamento: ma è il suo effetto - la sua esternalità, direbbe Galtung -, non la sua ideologia. Come ideologia, il capitalismo promette l'incremento costante dei beni, l'abbondanza senza limite, una fertilità quai magica; e come comportamento, il capitalismo richiede e impone il consumo senza limite. E' questo consumo, che appartiene per essenza al capitalismo, che produce la spoliazione. E non c'è modo di combattere il capitalismo senza intaccare questo mito del consumo e dell'incremento. Anche, se non soprattutto per questo hanno fallito i regimi comunisti. Inseguivano anch'essi il mito del progresso, dell'incremento, della crescita continua."
Il fatto è che se ci limitiamo a dare il nome di "capitalismo" a quello che non ci piace, all' 'o malamente della nostra commedia, è un conto, ma se vogliamo usare il concetto per capirci qualcosa il capitalismo non è un'ideologia, non è la società dei consumi, e non è l'american way of life. Se vogliamo usare il concetto per capirci qualcosa, e io credo che sia utile farlo, il capitalismo è un modo di produzione, la cui essenza è la produzione finalizzata a riprodurre il capitale stesso, quindi la produzione di valore di scambio e non di valore d'uso.
La produzione per l'uso, la produzione di beni o di cibo fatto per essere usati o consumati, ha un limite nel bisogno, che non è infinito. La produzione per la vendita invece non ha limite - e qui hai in parte ragione: la mancanza di limite, la tendenza a trasformare in merce di ogni singola molecola del pianeta è effettivamente propria del capitalismo.
Ma si tratta di incremento costante della produzione di merci, non di beni.
La sottile differenza fra queste due cose, bene e merce, uso e vendita, è quella che fa sì che depauperamento e spoliazione non siano semplici esternalità.
Quella che il capitalismo abolisce, spazza via dovunque arrivi, insieme alle forme di legame sociale preesistenti (belle o brutte che siano) è il modo in cui la popolazione produceva ciò di cui aveva bisogno. Il depauperamento è che ciascuno e ogni cosa devono essere asserviti alla produzione di tipo capitalistico - è che le coste siano riempite di alberghi, spazzando via vegetazione e pescatori, è la distruzione delle foreste, è lo stesso processo che fa estinguere le specie animali, non perché ci siano i cattivi cacciatori, ma perché, nel senso letterale della parola, il capitalismo toglie il terreno sotto i piedi alle diverse forme di vita animali così come per quelle umane. C'era un bellissimo film, "un incendio visto da lontano", che descriveva molto bene quello che cerco di dire.
E rispetto a questo, Amartya Sen spiega come le carestie non siano un problema di produzione, ma di capacità di acquisto; Vandana Shiva descrive i meccanismi dell'espropriazione odierni, Marx quelli che distrussero l'artigianato e la piccola proprietà ai tempi della "cosiddetta accumulazione originaria"; e infine, Herbert A. Simon mostra che la concorrenza è una fola, e che tutti e sempre di più lavoriamo direttamente o indirettamente per colossi economici su cui non abbiamo alcun controllo.
Non è questione di ideologia, insomma: se la promessa dell'abbondanza avesse qualche fondamento, se il capitalismo fosse tale da riuscire presto o tardi a soddisfare almeno i bisogni elementari di tutta l'umanità, non avremmo alcun diritto di protestare, se non su questioni marginali - anche il problema dell'esaurimento delle risorse naturali, ovvia! è transitorio, basta produrre (e soprattutto vendere) lampadine a basso consumo, motori più efficienti, tutto quel che vuoi.
Ma il fatto è che non è vero, il fatto è che è esattamente il capitalismo a creare fame e miseria in una parte del mondo, così come produce consumatori in questa parte, e le crea sottraendo risorse e possibilità alla produzione per il bisogno, che può essere in equilibrio, a favore di una produzione infinita e sganciata dal bisogno.
Infine, rispetto ai regimi comunisti, sbagli: ai tempi in cui c'era una contrapposizione, quella si chiamava "economia pianificata", questa "economia di mercato". Il tentativo era esattamente quello di organizzare una produzione indirizzata ai bisogni della comunità, e non allo scambio. C'era il mito del progresso, sì, ma è un'altra cosa. Il problema, lì, non era il mito della crescita, bensì: chi decide quali sono i bisogni?
Ed è questo il più importante degli interrogativi a cui dobbiamo rispondere: come si decide, collettivamente, quali sono i bisogni?
Ascoltare Leonard Cohen è un bisogno? Viaggiare è un bisogno? Bere più latte è un bisogno?
Che qualcuno sia deputato a decidere quali sono i veri bisogni è, per quanto mi riguarda, la peggiore delle forme di potere.
Io, per me, posso scegliere l'ascesi, il digiuno, tutto quel che vuoi, ma non ho diritto di sceglierle per gli altri - o tutto quello che per me ha un valore va a farsi benedire.
Il problema allora è: quali sono le alternative?
Perché il mito dell'economia di mercato, la sua ideologia, da questo punto di vista è potente, la sua promessa è la libertà: ciascuno decide quali sono i suoi bisogni, il prezzo di una cosa è quello che a cui i venditori sono disposti a vendere e i compratori sono disposti a pagare, il costo di una cosa si misura in opportunità, possibilità alternative a cui chi la sceglie rinuncia, il prezzo si definisce come costo-opportunità. E'una promessa falsa, perché funziona soltanto se i rapporti di forza fra compratori e venditori sono alla pari, ed è appunto questo che viene scardinato dal capitale, che sta semplicemente su una scala diversa.
Ma sto divagando ...