Fine di mondo
Continuo a guardare la foto di quel teppista che si aggira fra le fiamme di Londra in tuta e scarpette firmate. E´ una povera vittima, un relitto disperato della nostra società opulenta, come vorrebbe certa sociologia? Mah. I poveracci sono un´altra cosa: i bambini del Corno d´Africa con gli occhi sbiancati dalla fame, quelli sono vittime e infatti non indossano scarpe griffate. E´ allora soltanto un
delinquente «puro e semplice», come sostiene il primo ministro inglese? Anche questa interpretazione è fin troppo comoda. Sembra formulata a uso e consumo dei benpensanti: per non turbarli, per non svegliarli.
Quando i teppisti diventano un esercito e mettono a ferro e fuoco una metropoli occidentale, significa che è successo qualcosa che non si può più combattere solo aumentando il numero dei poliziotti e delle celle. E´ il segnale di un mondo, il nostro, che si sgretola. Un mondo senza politica, senza cultura, senza solidarietà. Il teppista griffato non si rivolta per ottenere un impiego, del cibo o dei diritti civili. Reclama soltanto l´accesso agli status-symbol della pubblicità acquistabili
attraverso il denaro. Dal giorno infausto in cui il capitalismo dei finanzieri ha soppiantato quello dei produttori, il denaro si è infatti sganciato dal merito, dal lavoro e dall´uomo, trasformandosi in un valore a sé. L´unico. Quel ragazzo è il prodotto di questa bella scuola di vita. Mettiamolo pure in galera. Ma poi affrettiamoci a ricostruire la scuola.
C'è del vero, in quel che scrive Gramellini, ma anche un errore profondo. Certo, quel teppista non è un povero morto di fame, ma è lo stesso povero, spogliato, deprivato di qualcosa di essenziale, e qui Gramellini coglie, credo casualmente, nel segno, quando dice che il problema è che << dal giorno infausto in cui il capitalismo dei finanzieri ha soppiantato quello dei produttori, il denaro si è infatti sganciato dal merito, dal lavoro e dall´uomo>>.
Infatti.
Il problema è che il denaro si è sganciato del tutto dal merito e dal lavoro stesso. Non esiste più alcuna possibilità di "farsi da solo" lavorando duramente, com'è nel mito americano e calvinista. Al contrario, se c'è un modo sicuro per non arricchirsi questo è lavorare, soprattutto se si fa un lavoro produttivo. Il problema è che gran parte il lavoro produttivo è stato spostato in Cina, ma anche che era possibile farlo: il lavoro di una piccola parte dell'umanità è sufficiente a produrre i beni necessari (o meno) per tutta l'umanità. Il lavoro di enormi masse di persone non è più necessario, basta che relativamente pochi producano (ma questi devono farlo lavorando fino allo stremo: per capire perché nel capitalismo debba essere così, andatevi a leggere Marx, che lo spiega piuttosto bene).
Per enormi masse di persone la possibilità di fare qualcosa di utile semplicemente non c'è, e spesso quando c'è è una pia finzione (fate scavare delle buche e poi fatele riempire, diceva Keynes) - a cui le persone, alla lunga, non credono, perché non sono mica sceme, le persone. Ovverosia, ci sono al mondo enormi masse di persone che non sanno cosa fare di sé e di cui il nostro mondo non sa cosa farsi.
Il lavoro non è più necessario, non è più richiesto (quello dei cinesi a parte). Perciò da dovere, doveroso contributo personale per rispondere ai bisogni di tutti, e che per il lavoratore dà titolo a una risposta ai propri bisogni, è diventato un bene, un diritto. Il diritto di lavorare per essere pagati, cioè di ricevere solo in cambio di ciò che si è dato - che significa dignità, inclusione, fare parte, status sociale - si è separato dalla necessità e dall'utilità di quello che si può dare.
Proprio per questo, è vero quel che dice Gramellini: il denaro si è sganciato dal merito e dal lavoro. Se il lavoro non è più necessario, non è più il lavoro che dà titolo a partecipare a una quota dei beni prodotti. Il lavoro non più necessario e trasformato in diritto non dà più titolo ad avere altri diritti. Il lavoro è qualcosa che si dà al lavoratore, non che il lavoratore dà: ti abbiamo dato un lavoro, non pretenderai mica qualcos'altro?!
Perciò è proprio vero: il teppista griffato non è un morto di fame. Nelle grandi metropoli europee queste la povertà non è mancanza di cibo (esiste comunque un sussidio di disoccupazione, fuori dall'Italia) - ma di possibilità, status e dignità. Questi "teppisti" griffati non hanno fame e neanche propriamente bisogno dei beni saccheggiati, ma di ciò che essi rappresentano: fame di far parte, contare, avere uno status e un riconoscimento sociale che si esprimono, ormai, soltanto nella partecipazione a una quota delle ricchezze disponibili.
Ma non illudiamoci, solo perché abbiamo un lavoro, anzi un "posto". Siamo rifiuti dell'umanità anche noi come loro - parte di un'umanità che si divide fra quelli a cui si spreme il lavoro, quelli che fanno finta di lavorare, e quelli a cui neanche questa finzione è data.