Cos'è una rivoluzione?
Una volta credevamo di saperlo: le rivoluzioni sono la presa del potere da parte di forze popolari che mirano a trasformare la natura stessa del sistema politico, sociale ed economico del paese in cui la rivoluzione ha luogo, di solito secondo qualche sogno visionario di una società giusta. Oggi viviamo in un'epoca in cui, se degli eserciti ribelli entrano in una città, o se delle rivolte di massa rovesciano un dittatore, è improbabile che ci siano queste conseguenze; quando avviene una profonda trasformazione sociale - come, per esempio, l'ascesa del femminismo - è probabile che prenda una forma completamente diversa. Non è che i sogni rivoluzionari non ci siano. Ma raramente i rivoluzionari contemporanei pensano di poterli realizzare con qualche equivalente moderno dell'assalto alla Bastiglia.
In momenti come questo, in genere conviene tornare alla storia che già si conosce e chiedersi: le rivoluzioni sono mai state davvero quello che pensavamo che fossero? Per me, la persona che se lo è chiesto più efficacemente è il grande storico del sistema mondo, Immanuel Wallerstein. Egli sostiene che nell'ultimo quarto di millennio circa, le rivoluzioni consistono soprattutto in trasformazioni planetarie del senso comune politico.
Già al tempo della Rivoluzione Francese, nota Wallerstein, c'era un unico mercato mondiale, e sempre più un unico sistema politico mondiale, dominato dai grandi imperi coloniali. Di conseguenza, la presa della Bastiglia a Parigi poteva avere effetti sulla Danimarca, o persino sull'Egitto, altrettanto profondi che sulla Francia stessa - in alcuni casi, anche di più. Per questo si parla della "rivoluzione mondiale del 1789", seguita dalla "rivoluzione mondiale del 1848", che ha visto scoppiare quasi contemporaneamente rivoluzioni in cinquanta paesi, dalla Valacchia al Brasile. In nessun caso i rivoluzionari riuscirono a prendere il potere, ma in seguito, le istituzioni ispirate dalla rivoluzione francese - in particolare, i sistemi universali di istruzione primaria - furono messe in atto praticamente ovunque. Allo stesso modo, la rivoluzione russa del 1917 fu una rivoluzione mondiale responsabile in ultima analisi del New Deal e degli stati sociali europei tanto quanto del comunismo sovietico. L'ultima della serie fu la rivoluzione mondiale del 1968, che, come il 1848, scoppiò quasi ovunque, dalla Cina al Messico, non prese il potere da nessuna parte, ma tuttavia cambiò tutto: questa fu una rivoluzione contro le burocrazie statali e per affermare che la liberazione personale e quella politica sono inseparabili, la cui eredità più duratura sarà probabilmente la nascita del femminismo moderno.
Le rivoluzioni sono quindi fenomeni planetari. Ma c'è di più. Ciò che fanno realmente è trasformare le assunzioni di base su ciò che è la politica. Sulla scia di una rivoluzione, idee che erano state considerate totalmente folli e marginali diventano rapidamente moneta corrente. Prima della Rivoluzione Francese, l'idea che il cambiamento è una buona cosa, che la politica del governo è il modo giusto per gestirlo, e che i governi derivano la loro autorità da un'entità chiamata "il popolo" erano considerate il tipo di cose che si sentono dire da pazzi e demagoghi, o al massimo da una manciata di intellettuali liberi pensatori che passano il loro tempo a discutere nei caffè. Una generazione più tardi, anche i magistrati, i preti e i presidi più rigidi dovevano omaggiare almeno a parole queste idee. In breve tempo, siamo arrivati alla situazione in cui ci troviamo oggi: è necessario esplicitare questi concetti perché qualcuno si accorga che sono alla base del discorso. Sono diventati senso comune, la base stessa della discussione politica.
Fino al 1968, la maggior parte delle rivoluzioni mondiali aveva introdotto solo perfezionamenti pratici: un ampiamento delle libertà, l'istruzione primaria universale, lo stato sociale. La rivoluzione mondiale del 1968, al contrario - sia nella forma che prese in Cina, di una rivolta di studenti e giovani quadri che rispondevano alla chiamata alla Rivoluzione Culturale da parte di Mao; o nella forma che prese a Berkeley e New York, dove segnò un'alleanza di studenti, dropout e intellettuali ribelli; o anche a Parigi, dove fu un'alleanza di studenti e lavoratori - è stata una ribellione contro la burocrazia, il conformismo, o qualsiasi cosa che imprigioni l'immaginazione umana, un progetto volto a rivoluzionare non solo la vita politica o economica, ma ogni aspetto dell'esistenza umana. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, i ribelli non cercavano nemmeno di prendere il controllo dell'apparato statale; consideravano quell'apparato il problema.
Oggi va di moda considerare i movimenti sociali della fine degli anni sessanta come un imbarazzante fallimento. Questo punto di vista va messo in discussione. È certamente vero che, nella sfera politica, il beneficiario immediato di ogni cambiamento diffuso nel senso comune politico - una priorità agli ideali di libertà individuale, immaginazione e desiderio; un odio per la burocrazia e un atteggiamento di sospetto sul ruolo del governo – è stata la destra politica. Soprattutto, i movimenti degli anni sessanta hanno permesso la rinascita di massa delle dottrine del libero mercato che erano state in gran parte abbandonate dal diciannovesimo secolo. Non è una coincidenza che la stessa generazione che, da adolescente, ha fatto la Rivoluzione Culturale in Cina sia stata quella che, da quarantenne, ha presieduto all'introduzione del capitalismo. Dagli anni ottanta, "libertà" ha finito per significare "il mercato", e "il mercato" è stato identificato con il capitalismo - anche, ironicamente, in posti come la Cina, che per migliaia di anni aveva conosciuto forme molto sofisticate di mercato, ma raramente qualcosa che potesse essere descritto come capitalismo.
C’è un’infinita ironia in questo. Mentre la nuova ideologia del libero mercato si è presentata soprattutto come rifiuto della burocrazia, in realtà è stata responsabile del primo sistema amministrativo burocratico operante su scala planetaria, con la sua infinita stratificazione di burocrazie pubbliche e private: FMI, Banca Mondiale, WTO, organizzazioni commerciali, istituzioni finanziarie, imprese transnazionali, ONG. Questo è precisamente il sistema che ha imposto l'ortodossia del libero mercato, e ha aperto il mondo al saccheggio finanziario, sotto l'egida vigile delle armi americane. Aveva senso che il primo tentativo di ricreare un movimento rivoluzionario globale, il Global Justice Movement che ha raggiunto il suo apice tra il 1998 e il 2003, fosse effettivamente una ribellione contro il dominio di quella stessa burocrazia planetaria.
Fermata futuro
In retrospettiva, però, penso che gli storici del futuro concluderanno che l'eredità della rivoluzione degli anni sessanta è stata più profonda di quanto immaginiamo ora, e che il trionfo dei mercati capitalisti e dei loro vari amministratori ed esecutori planetari - che sembrava così epocale e permanente sulla scia del crollo dell'Unione Sovietica nel 1991 - è stato, in realtà, molto più superficiale.
Prenderò un esempio ovvio. Si sente spesso dire che le proteste contro la guerra alla fine degli anni sessanta e all'inizio degli anni settanta furono in definitiva dei fallimenti, poiché non accelerarono in modo apprezzabile il ritiro degli Stati Uniti dall'Indocina. Ma in seguito, coloro che controllavano la politica estera degli Stati Uniti erano così preoccupati di trovarsi di fronte a simili disordini popolari - e ancora di più, a disordini all'interno dell'esercito stesso, che all'inizio degli anni Settanta stava veramente cadendo a pezzi - che evitarono di impegnare le forze statunitensi in qualsiasi grande conflitto di terra per quasi trent'anni. C'è voluto l'11 settembre, un attacco che ha portato a migliaia di morti civili sul suolo americano, per superare completamente la famigerata "sindrome del Vietnam", e anche allora i pianificatori di guerra hanno fatto uno sforzo quasi ossessivo per assicurarsi che le guerre fossero effettivamente a prova di protesta. La propaganda fu incessante, i media furono coinvolti, gli esperti fornirono calcoli esatti sul numero di sacchi per cadaveri (quante vittime americane ci sarebbero volute per suscitare un'opposizione di massa), e le regole di ingaggio furono scritte con cura per mantenere il numero al di sotto di tale soglia.
Il problema era che, poiché quelle regole d'ingaggio assicuravano che migliaia di donne, bambini e anziani sarebbero finiti come "danni collaterali" per minimizzare morti e feriti dei soldati statunitensi, ciò significava che in Iraq e in Afghanistan l'odio intenso per le forze d'occupazione avrebbe praticamente garantito che gli Stati Uniti non potessero ottenere i loro obiettivi militari. E significativamente, i pianificatori di guerra sembravano esserne consapevoli. Non importava. Consideravano molto più importante prevenire un'effettiva opposizione in patria che vincere effettivamente la guerra. È come se le forze americane in Iraq fossero state sconfitte dal fantasma di Abbie Hoffman.
Chiaramente, un movimento contro la guerra negli anni sessanta che ancora nel 2012 oggi lega le mani dei pianificatori militari statunitensi difficilmente può essere considerato un fallimento. Ma solleva una domanda intrigante: cosa succede quando la creazione di quel senso di fallimento, della completa inefficacia dell'azione politica contro il sistema, diventa l'obiettivo principale di quelli al potere?
È possibile che questo atteggiamento preventivo nei confronti dei movimenti sociali, la progettazione di guerre e summit commerciali in modo tale che prevenire un'effettiva opposizione sia considerata una priorità più del successo della guerra o del summit stesso, rifletta davvero un principio più generale?
E se coloro che attualmente gestiscono il sistema, la maggior parte dei quali sono stati testimoni in prima persona dei disordini degli anni sessanta quando erano giovani impressionabili, fossero - consciamente o inconsciamente (ma sospetto più consciamente che no) - ossessionati dalla prospettiva che ancora una volta dei movimenti sociali rivoluzionari sfidino il senso comune prevalente? Questo pensiero mi colse per la prima volta quando partecipavo alle azioni contro il summit del FMI a Washington, nel 2002. Era poco dopo l'11 settembre, ed eravamo relativamente pochi e inefficaci, mentre il numero di poliziotti era schiacciante. Non c'era la sensazione che potessimo riuscire a far chiudere gli incontri del summit. Molti di noi se ne andarono sentendosi vagamente depressi. Fu solo qualche giorno dopo, quando parlai con qualcuno che aveva amici che partecipavano agli incontri, che appresi che li avevamo effettivamente chiusi: la polizia aveva introdotto misure di sicurezza così severe, cancellando metà degli eventi, che la maggior parte degli incontri veri e propri erano stati fatti online. In altre parole, il governo aveva deciso che era più importante che i manifestanti andassero via sentendosi dei falliti piuttosto che le riunioni del FMI avessero luogo. Se ci pensate, avevano dato ai manifestanti un'importanza straordinaria.
Questo spiegherebbe molte cose. Nella maggior parte del mondo, gli ultimi trent'anni sono stati conosciuti come l'era del neoliberalismo, dominata da un revival del credo ottocentesco, da tempo abbandonato, secondo il quale il libero mercato e la libertà umana in generale erano in definitiva la stessa cosa. Il neoliberalismo è sempre stato afflitto da un paradosso centrale. Dichiara che gli imperativi economici devono avere la priorità su tutti gli altri. La politica stessa è solo una questione di creare le condizioni per la crescita dell'economia, permettendo alla magia del mercato di fare il suo lavoro. Tutte le altre speranze e sogni di uguaglianza, di sicurezza, devono essere sacrificati per l'obiettivo primario della produttività economica. Ma la performance economica globale negli ultimi trent'anni è stata decisamente mediocre. Con una o due eccezioni spettacolari (in particolare la Cina, che ha significativamente ignorato la maggior parte delle prescrizioni neoliberali), i tassi di crescita sono stati molto al di sotto di quello che erano nei giorni del capitalismo vecchio stile, diretto dallo stato e orientato al welfare degli anni cinquanta, sessanta e persino settanta. Per i suoi stessi standard, quindi, il progetto era già un fallimento colossale anche prima del crollo del 2008.
Se, d'altra parte, smettiamo di prendere in parola i leader mondiali e pensiamo invece al neoliberismo come a un progetto politico, esso appare improvvisamente spettacolarmente efficace. I politici, gli amministratori delegati, i burocrati del commercio e così via che si incontrano regolarmente in summit come Davos o il G20 possono aver fatto un lavoro miserabile nel creare un'economia capitalista mondiale che soddisfi i bisogni della maggioranza degli abitanti del mondo (per non parlare della produzione di speranza, felicità, sicurezza o significato), ma sono riusciti magnificamente a convincere il mondo che il capitalismo - e non solo il capitalismo, ma esattamente il capitalismo finanziarizzato e semifeudale che abbiamo adesso - è l'unico sistema economico possibile. Se ci pensate, questo è un risultato notevole.
Come ci sono riusciti? L'atteggiamento preventivo nei confronti dei movimenti sociali ne è chiaramente una parte; a nessuna condizione le alternative, o chiunque proponga alternative, debbono poter essere viste come un successo. Questo aiuta a spiegare l'investimento quasi inimmaginabile in "sistemi di sicurezza" di un tipo o di un altro: il fatto che gli Stati Uniti, che non hanno grandi rivali, spendono per le forze armate e l'intelligence più che durante la guerra fredda, insieme all'accumulo quasi abbagliante di agenzie di sicurezza private, agenzie di intelligence, polizia militarizzata, guardie e mercenari. Poi ci sono gli organi di propaganda, compresa una massiccia industria dei media che non esisteva nemmeno prima degli anni sessanta, che celebrano la polizia. Per lo più questi sistemi non attaccano direttamente i dissidenti, ma contribuiscono ad un clima pervasivo di paura, conformismo sciovinista, insicurezza della vita e semplice disperazione che fa sembrare qualsiasi pensiero di cambiare il mondo una fantasia vana. Eppure questi sistemi di sicurezza sono anche estremamente costosi. Alcuni economisti stimano che un quarto della popolazione americana è ora impegnata in un "lavoro di guardia" di un tipo o di un altro, per difendere la proprietà, supervisionare il lavoro o tenere in riga i loro connazionali. Economicamente, la maggior parte di questo apparato disciplinare è un puro peso morto.
In effetti, la maggior parte delle innovazioni economiche degli ultimi trent'anni hanno più senso politicamente che economicamente. Eliminare l'impiego garantito a vita per i contratti precari non crea realmente una forza lavoro più efficiente, ma è straordinariamente efficace nel distruggere i sindacati e nel depoliticizzare il lavoro. Lo stesso si può dire dell'aumento infinito dell'orario di lavoro. Nessuno ha molto tempo per l'attività politica se lavora sessanta ore a settimana.
Sembra spesso che, ogni volta che c'è una scelta tra un'opzione che fa sembrare il capitalismo l'unico sistema economico possibile, e un'altra che in realtà renderebbe il capitalismo un sistema economico più praticabile, il neoliberismo significhi scegliere sempre la prima. Il risultato combinato è una campagna implacabile contro l'immaginazione umana. O, per essere più precisi: sembra che l'immaginazione, il desiderio, la creatività individuale, tutte quelle cose che dovevano essere liberate nell'ultima grande rivoluzione mondiale, debbano essere contenute strettamente nel dominio del consumismo, o magari nelle realtà virtuali di Internet. In tutti gli altri ambiti devono essere rigorosamente bandite. Stiamo parlando dell'assassinio dei sogni, l'imposizione di un apparato di disperazione, progettato per soffocare qualsiasi senso di un futuro alternativo. Eppure, come risultato di aver messo praticamente tutti i loro sforzi in un solo cesto politico, siamo finiti nella bizzarra situazione in cui vediamo il sistema capitalista sgretolarsi davanti ai nostri occhi, proprio nel momento in cui tutti avevano finalmente concluso che nessun altro sistema sarebbe possibile.
Lavorare, rallentare
Normalmente, quando si sfida la saggezza convenzionale - che l'attuale sistema economico e politico sia l'unico possibile - la prima reazione che si ottiene è la richiesta di un progetto architettonico dettagliato di come funzionerebbe un sistema alternativo, fino alla natura dei suoi strumenti finanziari, alle forniture di energia e alle politiche di manutenzione delle fogne. Poi, è probabile che vi venga chiesto un programma dettagliato di come questo sistema sarà portato all'esistenza. Storicamente, questo è ridicolo. Quando mai il cambiamento sociale è avvenuto secondo il programma di qualcuno? Non è che un piccolo circolo di visionari nella Firenze rinascimentale abbia concepito qualcosa che chiamato "capitalismo", capito i dettagli di come la borsa e le fabbriche avrebbero funzionato un giorno, e poi messo in atto un programma per portare le loro visioni alla realtà. In effetti, l'idea è così assurda che potremmo chiederci come ci sia mai venuto in mente di immaginare che sia questo il modo in cui ha inizio il cambiamento.
Questo non significa che ci sia qualcosa di sbagliato nelle visioni utopiche. O anche nei progetti. Hanno solo bisogno di essere tenuti al loro posto. Il teorico Michael Albert ha elaborato un piano dettagliato per come un'economia moderna potrebbe funzionare senza denaro su una base democratica e partecipativa. Penso che questo sia un risultato importante - non perché penso che quel preciso modello esatto possa mai essere istituito, esattamente nella forma in cui lo descrive, ma perché rende impossibile dire che una cosa del genere è inconcepibile. Tuttavia, tali modelli possono essere solo esperimenti di pensiero. Non possiamo davvero concepire i problemi che sorgeranno quando cominceremo a cercare di costruire una società libera. Quelli che ora sembrano essere i problemi più spinosi potrebbero non esserlo affatto; altri che non ci sono mai venuti in mente potrebbero rivelarsi diabolicamente difficili. Ci sono innumerevoli fattori X.
Il più ovvio è la tecnologia. Questa è la ragione per cui è così assurdo immaginare attivisti nell'Italia rinascimentale che se ne escono con un modello per il funzionamento della borsa e delle fabbriche: quello che è successo è basato su ogni sorta di tecnologie che non si sarebbero potute prevedere, ma che in parte sono emerse solo perché la società ha cominciato a muoversi nella direzione in cui si è mossa. Questo potrebbe spiegare, per esempio, perché molte delle visioni più convincenti di una società anarchica sono state prodotte da scrittori di fantascienza (Ursula K. Le Guin, Starhawk, Kim Stanley Robinson). Nella finzione, almeno si ammette che l'aspetto tecnologico è una congettura.
Per quanto mi riguarda, sono meno interessato a decidere che tipo di sistema economico dovremmo avere in una società libera che a creare i mezzi con cui le persone possono prendere da sole simili decisioni. Come potrebbe essere una rivoluzione del senso comune? Non lo so, ma posso pensare ad un certo numero di pezzi di saggezza convenzionale che sicuramente hanno bisogno di essere messi in discussione se vogliamo creare qualsiasi tipo di società libera praticabile. Ne ho già esplorato uno - la natura del denaro e del debito - in qualche dettaglio in un libro recente (Graeber, 2011, tr. it. Debito, i primi 5000 anni, Il Saggiatore 2012, https://it.wikipedia.org/wiki/Debito._I_primi_5000_anni). Ho persino suggerito un giubileo del debito, una cancellazione generale, in parte solo per far capire che il denaro è davvero solo un prodotto umano, un insieme di promesse, che per sua natura può sempre essere rinegoziato.
Ciò che rimarrebbe è il tipo di lavoro che solo gli esseri umani saranno mai in grado di fare: quelle forme di lavoro di cura e aiuto che sono al centro della crisi che ha portato a Occupy Wall Street, tanto per cominciare. Cosa accadrebbe se smettessimo di comportarci come se la forma primordiale di lavoro fosse il lavoro in una linea di produzione, o in un campo di grano, o in una fonderia di ferro, o anche in un cubicolo d'ufficio, e partissimo invece da una madre, un'insegnante, o una badante? Potremmo essere costretti a concludere che il vero business della vita umana non è contribuire a qualcosa chiamato "l'economia" (un concetto che non esisteva nemmeno trecento anni fa), ma il fatto che siamo tutti, e siamo sempre stati, progetti di creazione reciproca.
Analogamente, cosa è “lavoro” andrebbe rinegoziato. Sottomettersi alla disciplina del lavoro, alla supervisione, al controllo, persino all'autocontrollo degli ambiziosi lavoratori autonomi, non ci rende persone migliori. Nella maggior parte dei modi davvero importanti, probabilmente ci peggiora. Subire questa disciplina è una disgrazia che nel migliore dei casi è necessaria. Eppure è solo quando rifiutiamo l'idea che questo tipo di lavoro sia virtuoso di per sé che possiamo cominciare a chiederci cosa ci sia di virtuoso nel lavoro. La risposta è ovvia. Il lavoro è virtuoso se aiuta gli altri. Una definizione rinegoziata di produttività renderebbe più facile la re-immaginare la natura stessa di ciò che è il lavoro, poiché, tra le altre cose, significherebbe reindirizzare lo sviluppo tecnologico, meno verso la creazione di sempre più prodotti di consumo e di sempre più lavoro disciplinato, e più verso l'eliminazione completa di questa forma di lavoro.
Al momento, probabilmente la necessità più urgente è semplicemente quella di rallentare i motori della produttività. Questa potrebbe sembrare una cosa strana da dire - la nostra reazione istintiva ad ogni crisi è quella di presumere che la soluzione sia che tutti lavorino ancora di più, anche se, naturalmente, questo tipo di reazione è proprio il problema - ma se si considera lo stato generale del mondo, la conclusione diventa ovvia. Sembra che ci troviamo di fronte a due problemi insolubili. Da un lato, abbiamo assistito a una serie infinita di crisi globali del debito, che sono diventate sempre più gravi a partire dagli anni Settanta, al punto che il peso complessivo del debito - sovrano, municipale, aziendale, personale - è ovviamente insostenibile. Dall'altro, abbiamo una crisi ecologica, un processo galoppante di cambiamento climatico che minaccia di gettare l'intero pianeta nella siccità, nelle inondazioni, nel caos, nella fame e nella guerra. Le due cose potrebbero sembrare non correlate. Ma alla fine sono la stessa cosa. Cos'è il debito, dopo tutto, se non la promessa di produttività futura? Dire che i livelli di debito globale continuano a crescere è semplicemente un altro modo per dire che, come collettività, gli esseri umani si stanno promettendo di produrre in futuro un volume di beni e servizi ancora maggiore di quello che stanno creando ora. Ma anche i livelli attuali sono chiaramente insostenibili. Sono precisamente ciò che sta distruggendo il pianeta, ad un ritmo sempre crescente.
Anche coloro che gestiscono il sistema stanno cominciando con riluttanza a concludere che una sorta di cancellazione di massa del debito - una sorta di giubileo - è inevitabile. La vera lotta politica sarà sulla forma che assumerà. Ebbene, la cosa più ovvia non è affrontare entrambi i problemi simultaneamente? Perché non una cancellazione del debito planetario, la più ampia possibile, seguita da una riduzione di massa delle ore di lavoro: una giornata di quattro ore, forse, o una vacanza garantita di cinque mesi? Questo potrebbe non solo salvare il pianeta, ma anche (dato che non è che tutti se ne starebbero seduti nelle loro ritrovate ore di libertà) cominciare a cambiare le nostre concezioni di base su cosa potrebbe essere il lavoro che crea valore.
Occupy aveva sicuramente ragione a non fare richieste, ma se io dovessi formularne una, sarebbe questa. Dopo tutto, questo sarebbe un attacco all'ideologia dominante nei suoi punti più forti. La moralità del debito e la moralità del lavoro sono le armi ideologiche più potenti nelle mani di chi gestisce il sistema attuale. Ecco perché si aggrappano ad esse anche se significa distruggere tutto il resto. Ed ecco perché la cancellazione del debito sarebbe la perfetta richiesta rivoluzionaria.
Tutto ciò può sembrare ancora molto lontano. Al momento, il pianeta sembra più indirizzato verso una serie di catastrofi senza precedenti che verso il tipo di ampia trasformazione morale e politica che aprirebbe la strada a un mondo diverso. Ma se vogliamo avere qualche possibilità di evitare queste catastrofi, dobbiamo cambiare i nostri modi di pensare abituali. E come rivelano gli eventi del 2011, l'era delle rivoluzioni non è affatto finita. L'immaginazione umana si rifiuta ostinatamente di morire. E nel momento in cui un numero significativo di persone si scrolla simultaneamente di dosso le catene che sono state imposte all’immaginazione collettiva, anche le nostre supposizioni più profondamente inculcate su ciò che è e non è politicamente possibile sono state viste sgretolarsi dal giorno alla notte.