Una volta credevamo di saperlo: le rivoluzioni sono
la presa del potere da parte di forze
popolari che mirano a trasformare la natura stessa del sistema politico,
sociale ed economico del paese in cui la rivoluzione ha luogo, di solito
secondo qualche sogno visionario di una società giusta. Oggi viviamo in
un'epoca in cui, se degli eserciti ribelli entrano in una città, o se delle rivolte
di massa rovesciano un dittatore, è improbabile che ci siano queste
conseguenze; quando avviene una profonda trasformazione sociale - come, per
esempio, l'ascesa del femminismo - è probabile che prenda una forma
completamente diversa. Non è che i sogni rivoluzionari non ci siano. Ma
raramente i rivoluzionari contemporanei pensano di poterli realizzare con
qualche equivalente moderno dell'assalto alla Bastiglia.
In momenti come questo, in genere conviene tornare alla storia che già si
conosce e chiedersi: le rivoluzioni sono mai state davvero quello che pensavamo
che fossero? Per me, la persona che se lo è chiesto più efficacemente è il
grande storico del sistema mondo, Immanuel Wallerstein. Egli sostiene che nell'ultimo
quarto di millennio circa, le rivoluzioni consistono soprattutto in
trasformazioni planetarie del senso comune politico.
Già al tempo della Rivoluzione Francese, nota Wallerstein, c'era un unico
mercato mondiale, e sempre più un unico sistema politico mondiale, dominato dai
grandi imperi coloniali. Di conseguenza, la presa della Bastiglia a Parigi poteva
avere effetti sulla Danimarca, o persino sull'Egitto, altrettanto profondi che
sulla Francia stessa - in alcuni casi, anche di più. Per questo si parla della
"rivoluzione mondiale del 1789", seguita dalla "rivoluzione
mondiale del 1848", che ha visto scoppiare quasi contemporaneamente
rivoluzioni in cinquanta paesi, dalla Valacchia al Brasile. In nessun caso i
rivoluzionari riuscirono a prendere il potere, ma in seguito, le istituzioni
ispirate dalla rivoluzione francese - in particolare, i sistemi universali di
istruzione primaria - furono messe in atto praticamente ovunque. Allo stesso
modo, la rivoluzione russa del 1917 fu una rivoluzione mondiale responsabile in
ultima analisi del New Deal e degli stati sociali europei tanto quanto del
comunismo sovietico. L'ultima della serie fu la rivoluzione mondiale del 1968,
che, come il 1848, scoppiò quasi ovunque, dalla Cina al Messico, non prese il
potere da nessuna parte, ma tuttavia cambiò tutto: questa fu una rivoluzione
contro le burocrazie statali e per affermare che la liberazione personale e quella politica sono inseparabili, la cui eredità più duratura sarà probabilmente la nascita del
femminismo moderno.
Le rivoluzioni sono quindi fenomeni planetari. Ma c'è di più. Ciò che fanno
realmente è trasformare le assunzioni di base su ciò che è la politica. Sulla
scia di una rivoluzione, idee che erano state considerate totalmente folli e
marginali diventano rapidamente moneta corrente. Prima della
Rivoluzione Francese, l'idea che il cambiamento è una buona cosa, che la politica
del governo è il modo giusto per gestirlo, e che i governi derivano la loro
autorità da un'entità chiamata "il popolo" erano considerate il tipo
di cose che si sentono dire da pazzi e demagoghi, o al massimo da una
manciata di intellettuali liberi pensatori che passano il loro tempo a
discutere nei caffè. Una generazione più tardi, anche i magistrati, i preti e i
presidi più rigidi dovevano omaggiare almeno a parole queste idee. In breve
tempo, siamo arrivati alla situazione in cui ci troviamo oggi: è necessario esplicitare questi concetti perché qualcuno si accorga che sono alla base del discorso. Sono diventati
senso comune, la base stessa della discussione politica.
Fino al 1968, la maggior parte delle rivoluzioni mondiali aveva introdotto
solo perfezionamenti pratici: un ampiamento delle libertà, l'istruzione primaria
universale, lo stato sociale. La rivoluzione mondiale del 1968, al contrario -
sia nella forma che prese in Cina, di una rivolta di studenti e
giovani quadri che rispondevano alla chiamata alla Rivoluzione Culturale da parte di Mao;
o nella forma che prese a Berkeley e New York, dove segnò un'alleanza di studenti, dropout e
intellettuali ribelli; o anche a Parigi, dove fu un'alleanza di studenti e
lavoratori - è stata una ribellione contro la burocrazia, il conformismo, o
qualsiasi cosa che imprigioni l'immaginazione umana, un progetto volto a
rivoluzionare non solo la vita politica o economica, ma ogni aspetto
dell'esistenza umana. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, i ribelli
non cercavano nemmeno di prendere il controllo dell'apparato statale; consideravano quell'apparato il problema.
Oggi va di moda considerare i movimenti sociali della fine degli anni
sessanta come un imbarazzante fallimento. Questo punto di vista va messo in discussione. È certamente vero che, nella sfera politica, il
beneficiario immediato di ogni cambiamento diffuso nel senso comune politico -
una priorità agli ideali di libertà individuale, immaginazione e desiderio; un
odio per la burocrazia e un atteggiamento di sospetto sul ruolo del governo – è stata la destra
politica. Soprattutto, i movimenti degli anni sessanta hanno permesso la
rinascita di massa delle dottrine del libero mercato che erano state in gran
parte abbandonate dal diciannovesimo secolo. Non è una coincidenza che la stessa
generazione che, da adolescente, ha fatto la Rivoluzione Culturale in Cina sia
stata quella che, da quarantenne, ha presieduto all'introduzione del
capitalismo. Dagli anni ottanta, "libertà" ha finito per significare
"il mercato", e "il mercato" è stato identificato con il
capitalismo - anche, ironicamente, in posti come la Cina, che per migliaia di
anni aveva conosciuto forme molto sofisticate di mercato, ma raramente qualcosa
che potesse essere descritto come capitalismo.
C’è un’infinita ironia in questo. Mentre la nuova ideologia del libero
mercato si è presentata soprattutto come rifiuto della burocrazia, in realtà è
stata responsabile del primo sistema amministrativo burocratico operante su scala
planetaria, con la sua infinita stratificazione di burocrazie pubbliche e
private: FMI, Banca Mondiale, WTO, organizzazioni commerciali, istituzioni
finanziarie, imprese transnazionali, ONG. Questo è precisamente il sistema che
ha imposto l'ortodossia del libero mercato, e ha aperto il mondo al saccheggio
finanziario, sotto l'egida vigile delle armi americane. Aveva senso che il
primo tentativo di ricreare un movimento rivoluzionario globale, il Global
Justice Movement che ha raggiunto il suo apice tra il 1998 e il 2003, fosse
effettivamente una ribellione contro il dominio di quella stessa burocrazia
planetaria.
Fermata futuro
In retrospettiva, però, penso che gli storici del futuro concluderanno che
l'eredità della rivoluzione degli anni sessanta è stata più profonda di quanto
immaginiamo ora, e che il trionfo dei mercati capitalisti e dei loro vari
amministratori ed esecutori planetari - che sembrava così epocale e permanente
sulla scia del crollo dell'Unione Sovietica nel 1991 - è stato, in realtà,
molto più superficiale.
Prenderò un esempio ovvio. Si sente spesso dire che le proteste contro la
guerra alla fine degli anni sessanta e all'inizio degli anni settanta furono in
definitiva dei fallimenti, poiché non accelerarono in modo apprezzabile il
ritiro degli Stati Uniti dall'Indocina. Ma in seguito, coloro che controllavano
la politica estera degli Stati Uniti erano così preoccupati di trovarsi di
fronte a simili disordini popolari - e ancora di più, a disordini all'interno
dell'esercito stesso, che all'inizio degli anni Settanta stava veramente
cadendo a pezzi - che evitarono di impegnare le forze statunitensi in qualsiasi
grande conflitto di terra per quasi trent'anni. C'è voluto l'11 settembre, un
attacco che ha portato a migliaia di morti civili sul suolo americano, per
superare completamente la famigerata "sindrome del Vietnam", e anche
allora i pianificatori di guerra hanno fatto uno sforzo quasi ossessivo per
assicurarsi che le guerre fossero effettivamente a prova di protesta. La
propaganda fu incessante, i media furono coinvolti, gli esperti fornirono
calcoli esatti sul numero di sacchi per cadaveri (quante vittime americane ci
sarebbero volute per suscitare un'opposizione di massa), e le regole di
ingaggio furono scritte con cura per mantenere il numero al di sotto di tale
soglia.
Il problema era che, poiché quelle regole d'ingaggio assicuravano che
migliaia di donne, bambini e anziani sarebbero finiti come "danni
collaterali" per minimizzare morti e feriti dei soldati statunitensi, ciò
significava che in Iraq e in Afghanistan l'odio intenso per le forze
d'occupazione avrebbe praticamente garantito che gli Stati Uniti non potessero
ottenere i loro obiettivi militari. E significativamente, i pianificatori di
guerra sembravano esserne consapevoli. Non importava. Consideravano molto più
importante prevenire un'effettiva opposizione in patria che vincere
effettivamente la guerra. È come se le forze americane in Iraq fossero state
sconfitte dal fantasma di Abbie Hoffman.
Chiaramente, un movimento contro la guerra negli anni sessanta che ancora nel 2012 oggi lega le mani dei pianificatori militari statunitensi difficilmente può essere considerato un fallimento. Ma solleva una domanda
intrigante: cosa succede quando la creazione di quel senso di fallimento, della
completa inefficacia dell'azione politica contro il sistema, diventa
l'obiettivo principale di quelli al potere?
È possibile che questo atteggiamento preventivo nei confronti dei movimenti
sociali, la progettazione di guerre e summit commerciali in modo tale che
prevenire un'effettiva opposizione sia considerata una priorità più del
successo della guerra o del summit stesso, rifletta davvero un principio più
generale?
E se coloro che attualmente gestiscono il sistema, la maggior parte dei
quali sono stati testimoni in prima persona dei disordini degli anni sessanta
quando erano giovani impressionabili, fossero - consciamente o inconsciamente (ma
sospetto più consciamente che no) - ossessionati dalla prospettiva che ancora
una volta dei movimenti sociali rivoluzionari sfidino il senso comune
prevalente? Questo pensiero mi colse per la prima volta quando partecipavo alle
azioni contro il summit del FMI a Washington, nel 2002. Era poco dopo l'11
settembre, ed eravamo relativamente pochi e inefficaci, mentre il numero di
poliziotti era schiacciante. Non c'era la sensazione che potessimo riuscire a far
chiudere gli incontri del summit. Molti di noi se ne andarono sentendosi
vagamente depressi. Fu solo qualche giorno dopo, quando parlai con qualcuno che
aveva amici che partecipavano agli incontri, che appresi che li avevamo
effettivamente chiusi: la polizia aveva introdotto misure di sicurezza così
severe, cancellando metà degli eventi, che la maggior parte degli incontri veri
e propri erano stati fatti online. In altre parole, il governo aveva deciso che
era più importante che i manifestanti andassero via sentendosi dei falliti
piuttosto che le riunioni del FMI avessero luogo. Se ci pensate, avevano dato
ai manifestanti un'importanza straordinaria.
Questo spiegherebbe molte cose. Nella maggior parte del mondo, gli ultimi
trent'anni sono stati conosciuti come l'era del neoliberalismo, dominata da un
revival del credo ottocentesco, da tempo abbandonato, secondo il quale il
libero mercato e la libertà umana in generale erano in definitiva la stessa
cosa. Il neoliberalismo è sempre stato afflitto da un paradosso centrale.
Dichiara che gli imperativi economici devono avere la priorità su tutti gli
altri. La politica stessa è solo una questione di creare le condizioni per la
crescita dell'economia, permettendo alla magia del mercato di fare il suo
lavoro. Tutte le altre speranze e sogni di uguaglianza, di sicurezza, devono
essere sacrificati per l'obiettivo primario della produttività economica. Ma la
performance economica globale negli ultimi trent'anni è stata decisamente
mediocre. Con una o due eccezioni spettacolari (in particolare la Cina, che ha
significativamente ignorato la maggior parte delle prescrizioni neoliberali), i
tassi di crescita sono stati molto al di sotto di quello che erano nei giorni
del capitalismo vecchio stile, diretto dallo stato e orientato al welfare degli
anni cinquanta, sessanta e persino settanta. Per i suoi stessi standard,
quindi, il progetto era già un fallimento colossale anche prima del crollo del
2008.
Se, d'altra parte, smettiamo di prendere in parola i leader mondiali e
pensiamo invece al neoliberismo come a un progetto politico, esso appare
improvvisamente spettacolarmente efficace. I politici, gli amministratori
delegati, i burocrati del commercio e così via che si incontrano regolarmente
in summit come Davos o il G20 possono aver fatto un lavoro miserabile nel
creare un'economia capitalista mondiale che soddisfi i bisogni della
maggioranza degli abitanti del mondo (per non parlare della produzione di
speranza, felicità, sicurezza o significato), ma sono riusciti magnificamente a
convincere il mondo che il capitalismo - e non solo il capitalismo, ma
esattamente il capitalismo finanziarizzato e semifeudale che abbiamo adesso - è
l'unico sistema economico possibile. Se ci pensate, questo è un risultato
notevole.
Come ci sono riusciti? L'atteggiamento preventivo nei confronti dei
movimenti sociali ne è chiaramente una parte; a nessuna condizione le
alternative, o chiunque proponga alternative, debbono poter essere viste come
un successo. Questo aiuta a spiegare l'investimento quasi inimmaginabile in
"sistemi di sicurezza" di un tipo o di un altro: il fatto che gli
Stati Uniti, che non hanno grandi rivali, spendono per le forze armate e
l'intelligence più che durante la guerra fredda, insieme all'accumulo quasi
abbagliante di agenzie di sicurezza private, agenzie di intelligence, polizia
militarizzata, guardie e mercenari. Poi ci sono gli organi di propaganda,
compresa una massiccia industria dei media che non esisteva nemmeno prima degli
anni sessanta, che celebrano la polizia. Per lo più questi sistemi non
attaccano direttamente i dissidenti, ma contribuiscono ad un clima pervasivo di
paura, conformismo sciovinista, insicurezza della vita e semplice disperazione
che fa sembrare qualsiasi pensiero di cambiare il mondo una fantasia vana.
Eppure questi sistemi di sicurezza sono anche estremamente costosi. Alcuni
economisti stimano che un quarto della popolazione americana è ora impegnata in
un "lavoro di guardia" di un tipo o di un altro, per difendere la
proprietà, supervisionare il lavoro o tenere in riga i loro connazionali.
Economicamente, la maggior parte di questo apparato disciplinare è un puro peso
morto.
In effetti, la maggior parte delle innovazioni economiche degli ultimi
trent'anni hanno più senso politicamente che economicamente. Eliminare
l'impiego garantito a vita per i contratti precari non crea realmente una forza
lavoro più efficiente, ma è straordinariamente efficace nel distruggere i
sindacati e nel depoliticizzare il lavoro. Lo stesso si può dire dell'aumento
infinito dell'orario di lavoro. Nessuno ha molto tempo per l'attività politica
se lavora sessanta ore a settimana.
Sembra spesso che, ogni volta che c'è una scelta tra un'opzione che fa sembrare
il capitalismo l'unico sistema economico possibile, e un'altra che in realtà
renderebbe il capitalismo un sistema economico più praticabile, il neoliberismo
significhi scegliere sempre la prima. Il risultato combinato è una campagna
implacabile contro l'immaginazione umana. O, per essere più precisi: sembra che
l'immaginazione, il desiderio, la creatività individuale, tutte quelle cose che
dovevano essere liberate nell'ultima grande rivoluzione mondiale, debbano
essere contenute strettamente nel dominio del consumismo, o magari nelle realtà
virtuali di Internet. In tutti gli altri ambiti devono essere rigorosamente
bandite. Stiamo parlando dell'assassinio dei sogni, l'imposizione di un
apparato di disperazione, progettato per soffocare qualsiasi senso di un futuro
alternativo. Eppure, come risultato di aver messo praticamente tutti i loro
sforzi in un solo cesto politico, siamo finiti nella bizzarra situazione in cui
vediamo il sistema capitalista sgretolarsi davanti ai nostri occhi, proprio nel
momento in cui tutti avevano finalmente concluso che nessun altro sistema sarebbe
possibile.
Lavorare, rallentare
Normalmente, quando si sfida la saggezza convenzionale - che l'attuale
sistema economico e politico sia l'unico possibile - la prima reazione che si
ottiene è la richiesta di un progetto architettonico dettagliato di come
funzionerebbe un sistema alternativo, fino alla natura dei suoi strumenti
finanziari, alle forniture di energia e alle politiche di manutenzione delle
fogne. Poi, è probabile che vi venga chiesto un programma dettagliato di come
questo sistema sarà portato all'esistenza. Storicamente, questo è ridicolo.
Quando mai il cambiamento sociale è avvenuto secondo il programma di qualcuno?
Non è che un piccolo circolo di visionari nella Firenze rinascimentale abbia concepito qualcosa che chiamato
"capitalismo", capito i dettagli di come la borsa e le fabbriche
avrebbero funzionato un giorno, e poi messo in atto un programma per portare le
loro visioni alla realtà. In effetti, l'idea è così assurda che potremmo
chiederci come ci sia mai venuto in mente di immaginare che sia questo il modo
in cui ha inizio il cambiamento.
Questo non significa che ci sia qualcosa di sbagliato nelle visioni
utopiche. O anche nei progetti. Hanno solo bisogno di essere tenuti al loro
posto. Il teorico Michael Albert ha elaborato un piano dettagliato per come
un'economia moderna potrebbe funzionare senza denaro su una base democratica e
partecipativa. Penso che questo sia un risultato importante - non perché penso
che quel preciso modello esatto possa mai essere istituito, esattamente nella
forma in cui lo descrive, ma perché rende impossibile dire che una cosa del
genere è inconcepibile. Tuttavia, tali modelli possono essere solo esperimenti
di pensiero. Non possiamo davvero concepire i problemi che sorgeranno quando
cominceremo a cercare di costruire una società libera. Quelli che ora sembrano
essere i problemi più spinosi potrebbero non esserlo affatto; altri che non ci
sono mai venuti in mente potrebbero rivelarsi diabolicamente difficili. Ci sono
innumerevoli fattori X.
Il più ovvio è la tecnologia. Questa è la ragione per cui è così assurdo
immaginare attivisti nell'Italia rinascimentale che se ne escono con un modello
per il funzionamento della borsa e delle fabbriche: quello che è successo è
basato su ogni sorta di tecnologie che non si sarebbero potute prevedere, ma
che in parte sono emerse solo perché la società ha cominciato a muoversi nella
direzione in cui si è mossa. Questo potrebbe spiegare, per esempio, perché
molte delle visioni più convincenti di una società anarchica sono state
prodotte da scrittori di fantascienza (Ursula K. Le Guin, Starhawk, Kim Stanley
Robinson). Nella finzione, almeno si ammette che l'aspetto tecnologico è una
congettura.
Per quanto mi riguarda, sono meno interessato a decidere che tipo di
sistema economico dovremmo avere in una società libera che a creare i mezzi con
cui le persone possono prendere da sole simili decisioni. Come potrebbe essere
una rivoluzione del senso comune? Non lo so, ma posso pensare ad un certo
numero di pezzi di saggezza convenzionale che sicuramente hanno bisogno di
essere messi in discussione se vogliamo creare qualsiasi tipo di società libera
praticabile. Ne ho già esplorato uno - la natura del denaro e del debito - in
qualche dettaglio in un libro recente (Graeber, 2011, tr. it. Debito, i primi
5000 anni, Il Saggiatore 2012, https://it.wikipedia.org/wiki/Debito._I_primi_5000_anni).
Ho persino suggerito un giubileo del debito, una cancellazione generale, in
parte solo per far capire che il denaro è davvero solo un prodotto umano, un
insieme di promesse, che per sua natura può sempre essere rinegoziato.
Ciò che rimarrebbe è il tipo di lavoro che solo gli esseri umani saranno
mai in grado di fare: quelle forme di lavoro di cura e aiuto che sono al centro
della crisi che ha portato a Occupy Wall Street, tanto per cominciare. Cosa accadrebbe se
smettessimo di comportarci come se la forma primordiale di lavoro fosse il
lavoro in una linea di produzione, o in un campo di grano, o in una fonderia di
ferro, o anche in un cubicolo d'ufficio, e partissimo invece da una madre,
un'insegnante, o una badante? Potremmo essere costretti a concludere che il
vero business della vita umana non è contribuire a qualcosa chiamato
"l'economia" (un concetto che non esisteva nemmeno trecento anni fa),
ma il fatto che siamo tutti, e siamo sempre stati, progetti di creazione
reciproca.
Analogamente, cosa è “lavoro” andrebbe rinegoziato. Sottomettersi alla
disciplina del lavoro, alla supervisione, al controllo, persino all'autocontrollo
degli ambiziosi lavoratori autonomi, non ci rende persone migliori. Nella
maggior parte dei modi davvero importanti, probabilmente ci peggiora. Subire
questa disciplina è una disgrazia che nel migliore dei casi è necessaria.
Eppure è solo quando rifiutiamo l'idea che questo tipo di lavoro sia virtuoso
di per sé che possiamo cominciare a chiederci cosa ci sia di virtuoso nel
lavoro. La risposta è ovvia. Il lavoro è virtuoso se aiuta gli altri.
Una definizione rinegoziata di produttività renderebbe più facile la re-immaginare
la natura stessa di ciò che è il lavoro, poiché, tra le altre cose, significherebbe
reindirizzare lo sviluppo tecnologico, meno verso la creazione di sempre più
prodotti di consumo e di sempre più lavoro disciplinato, e più verso
l'eliminazione completa di questa forma di lavoro.
Al momento, probabilmente la necessità più urgente è semplicemente quella
di rallentare i motori della produttività. Questa potrebbe sembrare una cosa
strana da dire - la nostra reazione istintiva ad ogni crisi è quella di
presumere che la soluzione sia che tutti lavorino ancora di più, anche se,
naturalmente, questo tipo di reazione è proprio il problema - ma se si
considera lo stato generale del mondo, la conclusione diventa ovvia. Sembra che
ci troviamo di fronte a due problemi insolubili. Da un lato, abbiamo assistito
a una serie infinita di crisi globali del debito, che sono diventate sempre più
gravi a partire dagli anni Settanta, al punto che il peso complessivo del
debito - sovrano, municipale, aziendale, personale - è ovviamente
insostenibile. Dall'altro, abbiamo una crisi ecologica, un processo galoppante
di cambiamento climatico che minaccia di gettare l'intero pianeta nella
siccità, nelle inondazioni, nel caos, nella fame e nella guerra. Le due cose
potrebbero sembrare non correlate. Ma alla fine sono la stessa cosa. Cos'è il
debito, dopo tutto, se non la promessa di produttività futura? Dire che i
livelli di debito globale continuano a crescere è semplicemente un altro modo
per dire che, come collettività, gli esseri umani si stanno promettendo di
produrre in futuro un volume di beni e servizi ancora maggiore di quello che
stanno creando ora. Ma anche i livelli attuali sono chiaramente insostenibili.
Sono precisamente ciò che sta distruggendo il pianeta, ad un ritmo sempre
crescente.
Anche coloro che gestiscono il sistema stanno cominciando con riluttanza a
concludere che una sorta di cancellazione di massa del debito - una sorta di
giubileo - è inevitabile. La vera lotta politica sarà sulla forma che assumerà.
Ebbene, la cosa più ovvia non è affrontare entrambi i problemi simultaneamente?
Perché non una cancellazione del debito planetario, la più ampia possibile,
seguita da una riduzione di massa delle ore di lavoro: una giornata di quattro
ore, forse, o una vacanza garantita di cinque mesi? Questo potrebbe non solo
salvare il pianeta, ma anche (dato che non è che tutti se ne starebbero seduti
nelle loro ritrovate ore di libertà) cominciare a cambiare le nostre concezioni
di base su cosa potrebbe essere il lavoro che crea valore.
Occupy aveva sicuramente ragione a non fare richieste, ma se io dovessi
formularne una, sarebbe questa. Dopo tutto, questo sarebbe un attacco all'ideologia
dominante nei suoi punti più forti. La moralità del debito e la moralità del
lavoro sono le armi ideologiche più potenti nelle mani di chi gestisce il
sistema attuale. Ecco perché si aggrappano ad esse anche se significa
distruggere tutto il resto. Ed ecco perché la cancellazione del debito sarebbe
la perfetta richiesta rivoluzionaria.
Tutto ciò può sembrare ancora molto lontano. Al momento, il pianeta sembra
più indirizzato verso una serie di catastrofi senza precedenti che verso il
tipo di ampia trasformazione morale e politica che aprirebbe la strada a un
mondo diverso. Ma se vogliamo avere qualche possibilità di evitare queste
catastrofi, dobbiamo cambiare i nostri modi di pensare abituali. E come
rivelano gli eventi del 2011, l'era delle rivoluzioni non è affatto finita.
L'immaginazione umana si rifiuta ostinatamente di morire. E nel momento in cui
un numero significativo di persone si scrolla simultaneamente di dosso le
catene che sono state imposte all’immaginazione collettiva, anche le nostre supposizioni
più profondamente inculcate su ciò che è e non è politicamente possibile sono
state viste sgretolarsi dal giorno alla notte.