Friday, 22 January 2010

giudicare

Non c'è casa e non c'è mondo, non ci sono offesa, sfregio, incanto.
Non c'è il dovere di dire "e tutto ciò è buono", né di dire "e tutto ciò è disgustoso", perché non c'è qualcuno separato dal tutto che lo possa dire.
E parlo di "dovere" perché anche questo fa parte dell'illusione: siamo buoni, giusti, conformi a ciò che si deve essere perché giudichiamo, prendiamo le misure della legge e diciamo "tutto questo è buono", o il suo contrario.
No.
Non è che siamo troppo piccoli, insignificanti o indegni per poter giudicare (a meno che non lo facciamo in nome di un Dio). E' che per giudicare bisogna chiamarsi fuori, e noi non siamo fuori, siamo parte - labilmente, transitoriamente e illusoriamente distinta dal tutto che ci attraversa. Chiamarcene fuori e giudicare è la madre di tutte le illusioni, e l’incanto e lo sfregio si alternano perché figli di questa stessa illusione. La Volkommenheit è al di là della colpa perché è al di là dell'accusa e del giudizio, e in questo è felicità e godimento: essere senza separazione e giudizio parte del tutto.

E lo so quali sono la tua domanda e la tua obiezione: certo, ma allora, in questa prospettiva, bene e male non ci sono, eppure noi sentiamo e sappiamo, con assoluta certezza, che le leggi assassine e razziste sull’immigrazione lo sono, ad esempio. Negando la capacità di giudicare, di dire il bene e dire il male, neghi anche questa verità immediata della coscienza.
Ma questa verità immediata della coscienza è, io credo, proprio la percezione del nostro essere parte, la certezza assoluta con cui sentiamo che nessuno si salva o si libera da solo, perché l’esistenza, lo sviluppo, la libertà di ogni essere sono la nostra – non per una nostra sovrana decisione e scelta, ma perché, semplicemente e solidamente, lo sono.
Auschwitz, o nel nostro piccolo le politiche sull’immigrazione, o il potere del sopravvivente, o l’uomo a una dimensione, o anche banalmente le trasmissioni televisive in cui si afferma e si riafferma che l’essere umano è in vendita, e vale di più quello che ha il prezzo più alto – tutte queste cose sono male perché distruggono, strappano, seppelliscono quel che gli umani possono essere.
Forse quando smetteremo di chiedere conto di Auschwitz a un Dio, e cominceremo a pensarlo come un male che gli esseri umani fanno agli esseri umani, si comincerà finalmente a ragionare.

No. Se io sono te e tu sei me quando siamo in vita, lo siamo anche da morti: non c’è nessun essere che seppellisce, ci sono mutazioni, forme e possibilità di essere nuove e diverse che passano e ci attraversano, e si sviluppano, e non si danno le une senza le altre. Queste mutazioni, forme, possibilità attraversano questo corpo e questa storia che mi fanno dire “io” quando questo corpo e questa storia esistono, e ne attraverseranno altri quando questo corpo e questa storia non esisteranno più. Non è il veicolo l’importante.

Ma soprattutto: no, non è tutto uguale. Non è l’essere che nella sua totalità seppellisce quello che gli umani sono e possono essere.
Non è tutto uguale. Ci sono il bene, la pienezza, la maturità “di quando cosa ch'è felice cade”, e c’è il male di quando l’esistenza, lo sviluppo e la libertà della cosa vengono recisi, impediti, immobilizzati (e per noi umani siamo soprattutto noi umani a farlo).
C’è questa particolare possibilità di essere, questa declinazione, sfumatura, orientamento distinto che non è, rispetto al tutto, più di una sfumatura, ma è ciò che, al di là del mio corpo o della mia storia, mi fa dire “io”, e che può, o può non, giungere a pienezza di sviluppo, felicità, maturazione, e poi lasciar posto all’esplorazione di altre possibilità. In questo “può”, o “può non”, tutto si gioca per me, e si gioca insieme ai miei simili, necessariamente e non per scelta - perché tagliata fuori dai loro pensieri e dalle loro azioni, da "l'essere che viene al mondo attraverso la complicità degli uomini tra loro" neanch'io posso pensare, fare, essere nulla.
E c'è il rischio che questa particolare possibilità che sono io venga invece limitata tanto da non poter giungere ad alcuna pienezza, ristretta, chiusa, immobilizzata, o anche cancellata. Ma questa chiusura e immobilità non sono necessariamente nella morte, anzi, possono essere anche nel suo rifiuto e nelle conseguenze che esso comporta – come vedi nel potente, in molte forme di religione, nella paura, nell'identità, ...

Il male esiste, ma non è l’essere stesso: è il fatto, presente in esso, che le possibilità possono essere distrutte, chiuse, strappate, immobilizzate.
Ma l’essere non è Dio, non è qualcuno a cui chiedere conto di questo fatto: è, semplicemente, e contiene anche questo fatto. E’ proprio per questo che, senza poterne chiedere conto a Dio, siamo tanto più obbligati ad avere cura di quello che cresce e a combattere il male.

Und wir, die an steigendes Glück
denken, empfänden die Rührung,
die uns beinah bestürzt,
wenn ein Glückliches fällt.

1 comment:

  1. ipazia, die schöne seele.

    von herzen mit-empfunden, mod

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