Ci sono parole che raccolgo e porto con me, come un talismano o come un interrogativo, e non so cosa sia che mi spinge a conservarle, o perché le chiami poesia. Ma so, sempre, con immediata sicurezza, riconoscerle: quelle, e non altre.
Così è stato con rima rerum: un riconoscimento immediato di parole importanti, da portare con me - di parole intense e pesanti tanto da affondare dentro di me, abitare la mia immaginazione e riaffiorare come mio proprio sguardo sul mondo.
E, come sempre mi accade, ho voluto parlarne, perché quando amo qualcosa ho bisogno di condividerla, ma tutto quel che sapevo e volevo fare era ripetere versi o frammenti di verso, come questi:
c'è ancora da camminareE in fondo, non c'è veramente bisogno di altro.
la strada è lunga e sul ciglio ci sono gli asfodeli
e vedrai che parlando prenderemo colore.
O non ce ne sarebbe, se queste tre righe così belle e quiete, che spesso ripeto fra me, bastassero a raccontare rima rerum. Ma non bastano affatto. Ne sono forse un approdo, o forse sono soltanto una radura in cui trovare un raro riposo, come la terra sognata e silenziosa di
Sogno a volte una terra di betulleMa sono radure in un sentiero di cardi: rima rerum è anche, e anzi è molto più spesso una violenta ribellione, un cammino aspro e doloroso - e io amo profondamente, di questo libro, tanto la quiete e la dolcezza che raramente ne traspirano quanto la rabbia e la ribellione che lo conducono -
stupita d’erba e d’innocenza
una terra di case dal tetto di frasche
con vaste macerie d’un regno di giganti
e serene montagne in lontananza.
Sogno una terra di silenzio, a volte.
La mia rabbia, dottore,Forse perché io stessa ho bisogno di parole che dicano anche per me la mia rabbia, e perché è anche la mia casa, la mia disciplina la casa ferita nella terra di febbraio, che non ha tetto, né consolazione.
non è una cosa che si possa dire
con le parole scritte nei suoi libri.
Rima rerum si apre con un Varco. Tutte le cose e tutte le parole, vi si dice (con Qohelet 1,8: םיעגי םירבדה־לכ, e la sua impossibile traduzione), sono in travaglio, faticose, difficili, fatigantur, fessa fiunt (parole che, osservo, dal travaglio alla spaccatura, rinviano anche alla generazione e al parto. Tutte le cose sono generate nel dolore). Tutte le cose, tutte le parole sono spaccate. Tutte le cose, tutte le parole sono aperte. La parola latina rima – anch’essa fessa, spaccata – può indicare questa essenziale apertura, questa spaccatura delle cose che si manifesta all’uomo che parla nell’assemblea. (nell'assemblea, osservo e sottolineo, ma lo capirò più tardi).
In Varco si dice anche: che ogni cosa sia aperta, fessa, spaccata non è annuncio di sofferenza, né di gioia. Ma questo non è vero, o lo sarà solo dopo, o soltanto a tratti, per l’uomo aperto, nell’apertura delle cose. Intanto, però rima rerum è una tensione che solo raramente trova quiete, la spaccatura è quasi sempre crepa (fingi di non vedere le aperture / le crepe le fessure le storture) fessura che lascia intravvedere il disagio, la violenza e il dolore, il male che insidia ogni essere, il fatto intollerabile dell’assenza
Non tolleriamo l’assenza. Questo è certo.
Qualunque cosa sia successa è certo
che noi non accettiamo alcuna assenza.
Ecco: rima rerum è un libro che innanzitutto fa anche di te che leggi una cosa o una parola in travaglio, spaccata, faticosa, difficile, ti costringe a reggere insieme all’autore la tensione delle cose e delle parole, a portartela dentro, a seguire un cammino scabro, aspro e doloroso che non ammette rettorica o tregue a buon mercato, e va fino in fondo und sonst gar nichts (se tu ora non mi soccorri, / dandomi ancora un po’ del tuo dolore / sarà stato nulla, tutto meno di nulla) - e forse, giunti fino in fondo, dopo avere non perduto, ma gettato via il nome, il volto, la parola e i pronomi possessivi, ti conduce a raggiungere o a ritrovare l'apertura, gli asfodeli, e la terra di dentro
vorrei dirti tenendoti i seni
della terra di dentro, della terra
liberata dal male e dal dolore, della terra
in cui ognuno ha il nome suo più vero.
Apertura e spaccatura non sono due cose molto diverse?
ReplyDeleteLa sento una forzatura, la loro vicinanza e tanto più la loro identificazione, se avvenisse.
Il cervello spaccato è quello della schizofrenia. La spaccatura, la scissione, la dissociazione del due di cui siamo portati a pensare son fatte le cose, è il male dell'una e dell'altra metà.
Aperto è spesso buona cosa; spaccato è spesso cattiva cosa.
La vagina è una apertura, non è una spaccatura. E non è la porta del dolore. E non è assenza.
Così come sento una forzatura, una posa, il colare di dolore. E chi lo nega, il dolore?
Però, tuttavia, nonostante.
Nel mio giardino le melograne si stanno spaccando, e dentro lasciano vedere i frutti, rossi come sangue o come rubini, una visione insieme bellissima e oscena: davvero apertura e spaccatura sono cose diverse? e una buona, una cattiva? E dare al mondo un mortale non è (anche) creare dolore? Nascita e morte si equivalgono, anche se non sei buddhista come Vigilante, poi tutto sta a cosa te ne fai di questa idea.
ReplyDeleteIl tuo giardino è aperto al tuo sguardo, e tu vedi quello che vedi. Non è spaccato, al tuo sguardo.
ReplyDeletePoi avviene che tu non solo vedi quello che vedi. Non vedi solo quello che vedi. E' in questo, per quanto ho capito di quello che risulta diceva Buddha, l'origine del dolore. In questo vedere non solo ciò che la Grande Apertura fa vedere.
"... allora, dovrai esercitarti così: In ciò che è visto ci sia solo ciò che è visto, in ciò che è udito ci sia solo ciò che è udito, in ciò che è percepito ci sia solo ciò che è percepito, in ciò che è conosciuto ci sia solo ciò che è conosciuto. Allora, tu non ti identificherai più con quello; e quando non ti identificherai più con quello, allora tu non sarai più in quello; quando tu non sarai più in quello, allora tu non sarai più né qui né al di là, né in ambedue. Proprio questa è la fine della sofferenza."
E se vedi solo ciò che vedi, solo vedi, non non vedi mai: la morte non esiste, esiste solo la vita, e accade che se è vero che tutto sta a cosa uno se ne fa delle proprie idee, quel tutto sta in cosa la vita fa di noi.
La vita, mi pare, ci fa aperti, non necessariamente spaccati. Questo, da quello che ho letto e capito, è anche quello che diceva Buddha, ma molti di loro si inalberano assai a questo dire di quel dire.
Bello - e: sì, riuscire a stare composti in un'assoluta presenza qui e ora, questo sarebbe "essere aperti nell'apertura delle cose". E - nella mia greve ignoranza - questo è quanto anch'io ho capito, o mi piace pensare, della dottrina del Buddha.
ReplyDeleteTuttavia, la prima delle quattro nobili verità del buddhismo, e anche il punto di partenza, mi pare, è la verità del dolore.
Poi, spaccatura non vuol dire assoluta separazione: la spaccatura crea innanzitutto uno spazio, una tensione, un pericolo, e un lavoro. La spaccatura, qui, è quella di Qohelet, non a caso, e forse anche quella delle Sephiroth: la spaccatura dei vasi che fa del mondo qualcosa che deve essere redento, che ci impone di ricomporre l'infranto.
E questa, certo, non è la prospettiva dell'apertura: c'è qui un duro giudicare, una ribellione, un dire "no"; c'è la volontà di schiantare l'io, il desiderio di non rinascere, il soffrire il mondo ...